Il petrolio ha trasformato gli Emirati Arabi Uniti in un’economia ricca e moderna, attrattiva per capitali, magnati e turisti di tutto il mondo, quando fino a pochi decenni fa era semplicemente una terra arida e desertica, priva di speranze di successo. E adesso, l’emirato punta a dire la sua sul mercato petrolifero. In media, produce 3 milioni di barili al giorno, ma punta a raddoppiare le estrazioni entro il 2022. Dispone di riserve per 105 miliardi di barili, seste al mondo.

Circa il 60% della produzione deriva dalla compagnia statale ADNOC (Abu Dhabi National Oil Company), che ha ottenuto dalle autorità locali l’autorizzazione per procedere alla vendita della materia prima a quotazioni slegate da quelle internazionali, attualmente dettate dall’andamento del Brent e del WTI.

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Con la collaborazione dell’ICE (InterContinental Exchange) e dell’ICE Murban, nei primi mesi del 2020, nascerà ad Abu Dhabi una borsa del petrolio, che vedrà la partecipazione di colossi come Total, Bp, Royal Dutch, Shell, PetroChina e Vitol. L’obiettivo dichiarato è di vendere il petrolio senza più fare riferimento, e per giunta retroattivamente, ai prezzi del Brent.

Sul mercato del petrolio mondiale si hanno due “benchmark”: il Brent è il paniere di riferimento per il greggio estratto nel Mare del Nord e il WTI (West Texas Index) riguarda le estrazioni nordamericane. Strano che possa sembrare, gli stati del Golfo Persico, pur essendo nel complesso i maggiori produttori al mondo, non hanno un loro paniere di riferimento per la fissazione dei prezzi. Il “pricing” avviene a sconto o a premio rispetto alle quotazioni del Brent. Di recente, è nato allo scopo il Dubai Mercantile Exchange/Oman, di cui pure fanno parte Arabia Saudita, Oman ed Emirato di Dubai, ma non ha riscosso il successo sperato, tant’è che gli analisti nutrono un certo scetticismo anche sulle fortune del “benchmark” che sta per nascere.

E anche Aramco sbarca in borsa

Il punto è che servono scambi molto liquidi per avere successo. E il Medio Oriente non ha mercati finanziari così sviluppati come l’Occidente. Ad ogni modo, ADNOC cercherà di superare alcune criticità che ad oggi ne limitano le vendite, rimuovendo tra l’altro il divieto per gli acquirenti di rivendere il suo greggio a terzi. Chi acquisterà le sue estrazioni ne conoscerà subito il prezzo, grazie ai futures. E la stessa compagnia sarà più reattiva alle condizioni attuali del mercato, visto che ancora vende sulla base dei prezzi passati. In sostanza, domanda e offerta dovrebbero incontrarsi meglio.

Mentre gli Emirati Arabi Uniti debuttano sul mercato del trading, l’Arabia Saudita sta anch’essa per sbarcare in borsa, ma per collocare circa l’1-2% del capitale di Aramco, la compagnia petrolifera più grande al mondo con una produzione giornaliera che si aggira mediamente sui 10 milioni di barili e con riserve accertate per 264 miliardi di barili. Dall’IPO, Riad intende portare a casa fino a 50 miliardi, puntando a una capitalizzazione totale di 2.000 miliardi, che sarebbe la più grande al mondo. Contrariamente agli annunci del passato, la quotazione iniziale avverrà solamente al Tadawul di Riad. Lo stesso prospetto informativo avverte che la liquidità degli scambi non sarebbe in sé assicurata e ciò potrebbe portare ad allungare l’orario delle contrattazioni, una volta che le azioni diverranno negoziabili.

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Le petro-monarchie non si accontentano più di produrre e vendere greggio; adesso, cercano anche di costruirvi sopra una finanza su misura e in loco. Non sarà facile, dato che l’ultima parola spetta sempre ai capitali, i quali certamente si fidano di più delle borse occidentali.

Ma Abu Dhabi, dove avrà luogo la borsa del petrolio di ADNOC, fa parte del distretto finanziario sottoposto alla legge britannica, in sé una rassicurazione per gli investitori stranieri. Anche la Cina negli ultimi tempi sta cercando di dire la sua. Da primo acquirente di petrolio al mondo, da mesi consente la realizzazione degli scambi in yuan, non in dollari USA. Nemmeno in questo caso, però, si è percepito un qualche successo, sebbene la strategia di Pechino possa essere solo l’avvio di una progressiva autonomia dalla divisa americana.

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