Quando l’Italia, a inizio anni Novanta, decise di unirsi ad altri 11 paesi europei per adottare una moneta unica, l’argomentazione che andava per la maggiore sulla stampa e negli ambienti politici fu che avremmo beneficiato di interessi più bassi sul nostro già immenso debito pubblico, potendo spendere complessivamente di meno, spostando capitoli di spesa in favore di voci più produttive e risanando al contempo i conti pubblici. Si trattava del famoso “dividendo dell’euro”, che l’Italia effettivamente ha incassato in quasi due decenni di appartenenza all’Eurozona, anche se con effetti fiscali positivi, come vedremo, praticamente nulli.

In tempi di dibattiti più o meno teorici, più o meno credibili, sul ritorno alla lira, sarebbe opportuno fare il punto su cosa implicherebbe per noi italiani sganciarci dall’euro.

Nel decennio precedente alla nascita ufficiale dell’Eurozona, ovvero tra il 1989 e il 2008, l’Italia registrò una spesa pubblica mediamente al 52,8% del pil. Nel decennio immediatamente successivo, ovvero tra il 1999 e il 2008, tale percentuale risultò scesa al 47,9%, in calo del 4,9% rispetto al periodo pre-euro. Governi italiani più virtuosi? Macché! Con l’euro, Roma incassava il dividendo di cui parlavamo, dato che nel primo decennio di moneta unica, prima che esplodesse la potente crisi finanziaria mondiale, seguita da quella dei debiti sovrani nell’Eurozona, la spesa per gli interessi sul debito pubblico crollava al 5,4% medio del pil, quando nel decennio precedente era schizzata all’11%. (Leggi anche: Italia fuori dall’euro? Ecco cosa accadrebbe con il ritorno alla lira)

L’Italia ha sprecato i minori interessi con l’euro

Con il semplice passaggio dalla lira all’euro, l’Italia si è trovata a pagare improvvisamente il 5,5% di pil in meno per gli interessi sul debito, una percentuale che spiega interamente il calo dell’incidenza della spesa pubblica rispetto al pil. Anzi, lo stato ha speso, al netto di tali minori interessi, persino qualcosa di più per le altre voci di spesa complessiva (corrente + per investimenti).

Senza giri di parole, una volta entrati nell’euro, non abbiamo risanato di un solo centesimo i conti pubblici, né utilizzato la minore spesa per interessi per abbattere il debito pubblico. Tutt’altro. Abbiamo approfittato della moneta unica per continuare a condurre le medesime politiche fiscali, con il risultato che il rapporto tra debito pubblico e pil non solo non si è abbassato ancora prima della crisi degli ultimi anni, ma si è stabilizzato in rialzo, esplodendo al 133% attuale. (Leggi anche: Come la politica ha sprecato l’ennesima occasione)

L’inganno di un ritorno alla lira contro l’austerità

Il ritorno alla lira tanto auspicato da formazioni “sovraniste” sarebbe, in effetti, un possibile antidoto al malgoverno, ma non per le ragioni addotte dai proponenti, bensì per quelle esattamente contrarie. Se i governi italiani dovessero pagare gli interessi davvero corrispondenti al rischio percepito dal mercato per il nostro debito sovrano, la loro incidenza sul pil s’impennerebbe e a Roma si sarebbe costretti a fare più austerità, non meno. E per convincere gli investitori stranieri, ma anche nazionali, a comprarsi i nostri titoli di stato, il Tesoro dovrebbe porre in atto una strategia concreta di medio-lungo periodo per l’abbattimento del rapporto debito/pil, attraverso un taglio drastico ai vari capitoli di spesa, roba che la spending review di cottarelliana memoria sarebbe persino ridicola.

Alla fine, anche il dilagare del populismo in salsa nostrana è frutto di una bolla, quella del credito e conseguente alla nascita dell’euro, adottando il quale l’Italia si era davvero convinta che ad un tratto sarebbe diventata credibile sui mercati finanziari al pari della Germania, potendo usufruire dei medesimi rendimenti sovrani, ma continuando a comportarsi come quando in tasca avevamo la lira.

E il fallimento dell’euro sta tutto qua, nell’aver propinato la convinzione che buoni e cattivi sarebbero diventati uguali, che spendaccioni e virtuosi avrebbero potuto convivere senza che i primi cambiassero alcunché nel loro modo di gestire le finanze pubbliche. E’ vero, servirebbe il ritorno alla lira per l’Italia. Solo così sparirebbe in un attimo il piagnisteo contro l’austerità, che ad oggi nel nostro paese sarebbe solo una parola priva di significato pratico. (Leggi anche: Debito pubblico, austerità vera con aumento tassi)