Il prezzo del petrolio è salito ai massimi da oltre due anni, sfiorando ieri i 73 dollari al barile. Un boom di oltre il 40% quest’anno, che rende certamente felici le economie esportatrici. A proposito, vi siete mai chiesti quanta materia prima vi sia nel sottosuolo? Vi rispondiamo subito: le riserve di petrolio accertate ammontano a 1.730 miliardi di barili. Considerando che, al netto del contraccolpo della pandemia, la domanda si attesti sui 100 milioni di barili al giorno, teoricamente ve ne sarebbero abbastanza per quasi mezzo secolo (47 anni).

In realtà, questo calcolo è molto sbrigativo. Ad esempio, non tiene conto della crescita tendenziale della domanda futura e, per contro, della minaccia rappresentata dalla transizione energetica. A dire il vero, le riserve di petrolio variano nei mesi e negli anni, anche grazie alle nuove scoperte di giacimenti on- e off-shore. E quando vi riportiamo il dato, dobbiamo premettere che esso si riferisce alle riserve di petrolio le cui estrazioni abbiano un senso economico e al contempo siano possibili sulla base della tecnologia disponibile.

Ad esempio, se per estrarre greggio in un bacino complicato, come in un fondale marino, richiede il sostenimento di costi per 150 dollari al barile, tali quantità non vengono conteggiate tra le riserve ufficiali. In effetti, ai prezzi attuali di mercato significherebbe produrre fortemente in perdita. Ma se con il tempo le quotazioni salissero sopra i 150 dollari e/o la tecnologia consentisse di estrarre a costi più bassi, quel greggio finirebbe tra le riserve di petrolio ufficiali.

Riserve di petrolio a rischio estrazioni

Il Venezuela è primo al mondo con 304 miliardi di barili accertati, il 17,8% del totale e davanti ai 298 miliardi dell’Arabia Saudita. Il salto di qualità e quantità lo fece nel 2011, quando nella Cintura di Orinoco furono scoperti ben 200 miliardi di barili. Improvvisamente, lo stato sudamericano passò da quinto a primo. Ma per paradosso, i guai iniziarono proprio da lì.

Il boom delle quotazioni fu seguito da un crollo tra il 2014 e il 2016. L’economia venezuelana, fortemente dipendente dal greggio, sprofondò nella miseria e nell’iperinflazione. Non ci furono e continuano a non esservi più capitali disponibili da investire per potenziare le estrazioni. Man mano che i pozzi si esauriscono, lo stato non riesce a trivellare altrove per soppiantare la mancata produzione. Le sanzioni internazionali imposte dall’America hanno fatto il resto.

A marzo, stando ai dati ufficiali rilasciati dal regime di Caracas, il Venezuela estraeva 578.000 barili al giorno. Parliamo di un quarto dei livelli del 2017. A questi ritmi, il paese impiegherebbe 1.440 anni per estrarre tutto il greggio ad oggi accertato. Il problema è che potrebbe non avere più senso farlo da qui a pochi decenni o qualche secolo al massimo. Anche solo applicando un tasso di sconto dell’1%, otteniamo che i 73 dollari attuali per il Brent varrebbero tra 100 anni come neppure 27 dollari di oggi. Ma si calcola che i costi di produzione attuali del Venezuela sarebbero tra 27 e 28 dollari al barile. Ammesso che restassero fermi e così anche le quotazioni, tra un secolo non sarebbe più nelle condizioni di estrarre alcunché.

Questo avrebbe implicazioni disastrose per la già fallita economia domestica: avrà rinunciato ad estrarre circa il 99% delle riserve di petrolio. Insomma, avrebbe sprecato un’occasione irripetibile di sfruttare a proprio vantaggio la materia prima di cui abbonda. E non stiamo considerando che, trattandosi di greggio ad alto contenuto di zolfo e avendo l’impellenza di vendere per incassare dollari, il paese offre sconti generosi sulle quotazioni del Brent, anche di oltre una decina di dollari al barile. Per sperare in un futuro diverso, a Caracas serviranno quotazioni internazionali stabilmente elevate, il ri-afflusso dei capitali esteri da impiegare per potenziare la produzione e l’abbattimento dei costi legati alla gestione inefficiente e politicizzata della compagnia PDVSA.

Al momento, le ultime due condizioni mancano.

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