Il governo Draghi è caduto, resta in carica per il disbrigo degli “affari correnti” fino al giuramento del successore. Questo significa che non vi sarà alcuna riforma delle pensioni da qui alla fine di ottobre come minimo. Il tema era stato messo in disparte dalla maggioranza uscente, se non altro per assenza di vedute comuni sul da farsi. E’ noto che la Lega premeva per introdurre forme di flessibilità in uscita a favore dei lavoratori, così come il Movimento 5 Stelle. Il PD si mostrava più cauto al riguardo.

Ad ogni modo, questo è il passato. Fino al 31 dicembre i lavoratori italiani potranno andare in pensione con quota 102: servono almeno 64 anni di età e 38 anni di contributi versati. Dall’1 gennaio prossimo, invece, torna in vigore la legge Fornero: età pensionabile a 67 anni per uomini e donne. In alternativa, si può andare in pensione con 42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne.

Riforma pensioni, proposte dei partiti

Il prossimo governo dovrà decidere molto in fretta la direzione da assumere. Tuttavia, non è improbabile che non riesca in tempo a varare una riforma delle pensioni per evitare un ritorno in toto alla Fornero. Chiaramente, molto dipenderà da chi sarà il vincitore. Se a prevalere alle elezioni del 25 settembre fosse il centro-destra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia), prenderebbe corpo l’ipotesi di una proroga di quota 102. Molto improbabile, invece, il ripristino di quota 100, che ha permesso ai lavoratori di andare in pensione con 62 anni di età e 38 anni di contributi tra il 2019 e il 2021. Il costo della misura è considerato proibitivo, specie con il rialzo dei tassi d’interesse.

Se a vincere fosse il PD, con ogni probabilità si potenzierebbero misure come Ape Social e Opzione Donna. In parole semplici, flessibilità mirata a favore delle categorie che svolgono lavori gravosi e delle lavoratrici con almeno 58 anni di età e in possesso di almeno 35 anni di contributi.

Infine, se vincesse il Movimento 5 Stelle? Probabile che seguirebbero il suggerimento del presidente INPS, Pasquale Tridico, di permettere ai lavoratori di andare in pensione in due tempi: a 63-64 anni con la sola quota dell’assegno calcolata con il metodo contributivo; al raggiungimento dei 67 anni, percepirebbero anche la quota retributiva, cioè l’assegno pieno. La misura costerebbe poche centinaia di milioni all’anno e, addirittura, finirebbe per fare risparmiare lo stato con il passare degli anni.

Pensione minima a 1.000 euro?

C’è anche una proposta che riguarda i pensionati: assegno minimo di 1.000 euro al mese per tutti. Arriva da Silvio Berlusconi, che già dopo la vittoria nel 2001 elevò a 1 milione di lire la pensione minima. Il costo sarebbe, tuttavia, molto elevato. Soprattutto, se i lavoratori sapessero di percepire non meno di 1.000 euro al mese, perché mai dovrebbero versare i contributi previdenziali all’INPS in molti casi?

In conclusione, la riforma delle pensioni sarà determinata dal vincitore delle prossime elezioni e dalle (scarse) disponibilità di manovra fiscale. Non dovrebbero esservi interventi radicali. La strada che si percorrerà con ogni probabilità sarà quella dei correttivi all’attuale flessibilità prevista dalle norme, estendendo la platea dei beneficiari. Si va verso la fine del sistema delle quote e il potenziamento di misure di pensionamento anticipato.

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