I sindacati di CGIL, CISL e UIL incontreranno domani il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, per fare il punto tecnico sulla riforma delle pensioni. Il prossimo 7 febbraio, invece, la discussione inizierà ad essere politica con una prima sintesi tra le parti. Da qui ad allora, il quadro politico potrebbe risultare stravolto. La prossima settimana, il Parlamento in seduta comune avvierà le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Stando al toto-Quirinale, nessun candidato informale avrebbe la certezza di farcela, neppure il premier Mario Draghi, il quale eppure sembrava essere destinato a traslocare al Colle senza alcuna resistenza dei partiti.

La riforma delle pensioni ha molto a che vedere con l’identikit del prossimo capo dello stato e del premier. Sono tre i capitoli su cui il dibattito di queste settimane si sta concentrando: flessibilità in uscita per i lavoratori, garanzie per giovani e donne e previdenza complementare. L’obiettivo comune, anche se ambito maggiormente dai sindacati, consiste nell’evitare il ritorno alla legge Fornero nel 2023. Dal prossimo anno, quota 102 non ci sarà più. Dopo la fine di quota 100, spirata nel 2021, i lavoratori possono andare in pensione in anticipo con almeno 64 anni di età e 38 di contributi. In assenza di misure sostitutive, dal prossimo anno resterebbero in vigore i requisiti previsti dalla riforma del 2011: 67 anni di età o almeno 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

Riforma pensioni a rischio impasse

Draghi si è detto disponibile a trattare, pur nel quadro della sostenibilità previdenziale. Ma l’elezione del presidente della Repubblica rischia di impattare negativamente sul confronto. I partiti della maggioranza sono divisi praticamente su tutto, riforma delle pensioni compresa. Lega e Movimento 5 Stelle chiedono maggiore flessibilità in uscita, PD e Forza Italia si mostrano più tiepidi. A tenere uniti tutti ci pensa Draghi.

Ma se questi si trasferisse al Quirinale, sarebbe in grado un nuovo premier di fare da paciere tra i partiti o di far leva sulla propria autorevolezza per metterli a tacere?

L’ipotesi alternativa sarebbe che Draghi restasse premier, per cui al Quirinale andrebbe un’altra figura. Ora, in assenza di un voto che unisca l’intera maggioranza, questo scenario porterebbe irrimediabilmente a una crisi di governo. Il centro-destra non resterebbe nell’esecutivo, se fosse eletto un presidente individuato solo dal centro-sinistra, e viceversa. La conseguenza di questo epilogo politico sarebbe l’impasse parlamentare. Che le elezioni anticipate si tenessero in primavera o, come i più credono, nell’autunno prossimo, quando i parlamentari potranno maturare il diritto al “vitalizio”, da qui a fine anno non si avrebbe più il tempo di approvare alcuna riforma delle pensioni. Anzi, il tema diverrebbe oggetto di confronto elettorale. Con buona pace dei lavoratori, che non sono di certo in cima alle priorità del Parlamento.

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