E’ tornato il super dollaro o “the king dollar”, come viene definito dalla stampa americana. Il biglietto verde è salito ai massimi dalla metà dello scorso anno contro le altre principali valute mondiali, mettendo a segno guadagni sopra il 4% in meno di 8 settimane e apprezzandosi più del 6% da inizio anno. Il cambio euro-dollaro, che tra gennaio e febbraio era riuscito a portarsi in area 1,25, al momento risulta sceso a 1,1240, il livello più basso da 17 mesi. Che cosa sta succedendo sui mercati? Per capirlo meglio, dovremmo guardare anche a quel -5% accusato da Wall Street rispetto ai massimi storici toccati all’inizio di ottobre.

Analisti e investitori sembrano convinti che la borsa americana sia ormai ben apprezzata, specie per il fatto che i margini di profitto stimati nel terzo trimestre per le società USA quotate avrebbero già raggiunto il picco storico del 10% e difficilmente riuscirebbero a fare meglio nei trimestri successivi.

Cambio euro-dollaro, previsioni a lungo termine più deboli dalle elezioni italiane

Inoltre, la Federal Reserve ha segnalato all’ultimo board della settimana scorsa di volere andare avanti nel rialzo dei tassi. La divergenza monetaria con le altre principali banche centrali si amplia, se è vero che ancora la BCE deve avviare il “tapering” e già si vocifera che a Francoforte starebbero considerando nuovi stimoli, a partire dalle aste T-Ltro con cui iniettare liquidità alle banche nell’Eurozona. Che c’entrano i cali degli indici azionari con il rinvigorimento del dollaro? Il 40% dei profitti delle società quotate nell’S&P 500 sono maturati all’infuori degli USA, per cui il rafforzamento del cambio colpisce i margini in valuta locale, oltre alle esportazioni a stelle e strisce.

E non è solo l’atteso prosieguo della stretta Fed a irrobustire il dollaro. Le tensioni in Europa su Brexit e manovra di bilancio dell’Italia, nonché quelle commerciali tra USA e Cina tengono i mercati con il fiato sospeso.

Nelle ultime ore, pare che l’amministrazione Trump abbia ripreso in mano il dossier sui dazi imposti alle importazioni di auto, cosa che deprime alquanto l’umore degli investitori specialmente nell’Eurozona, visto che qui si produce gran parte dei veicoli esportati verso l’America. E sarebbe un colpo per l’economia dell’unione monetaria, già in fase di vistoso rallentamento sin dai primi mesi dell’anno.

Quali prospettive per il super dollaro?

Il dollaro è molto forte, ma tra la vittoria inattesa di Donald Trump alle presidenziali di due anni fa e il suo insediamento di quasi 2 mesi e mezzo dopo, si era apprezzato del 7%, salendo su livelli di circa l’8,5% superiori rispetto a quelli odierni. Il rally di queste settimane è destinato a riportarci al gennaio 2017? Per rispondere, guardiamo a uno dei segnali più interessanti da cogliere per capire come si stiano ponendo gli investitori sul mercato: i rendimenti sovrani. Il Treasury a 2 anni offre oggi il 2,90%, il Bund emesso dalla Germania per la medesima scadenza viaggia a -0,62%. Ciò significa che acquistare un titolo tedesco ci fa perdere il 7% cumulato in due anni rispetto a un omologo americano. Solo se nel frattempo il cambio euro-dollaro sarà risalito di almeno la stessa percentuale, le perdite sarebbero colmate.

In teoria, ciò implicherebbe che il mercato si attenda un cambio euro-dollaro sopra 1,20 da qui a due anni. E poiché parliamo del principale cross valutario del pianeta, potremmo considerarlo un trend approssimativo per il dollaro nel suo complesso. Del resto, basti guardare l’andamento del dollaro contro le altre principali valute e quello del solo cambio euro-dollaro per carpire una forte correlazione inversa. Da notare anche che il rendimento decennale del Treasury si è un po’ affievolito nelle ultime sedute, passando dal 3,23% al 3,17%, pur restando ai massimi da oltre 7 anni.

Ciò rifletterebbe minori probabilità di stimoli fiscali negli USA con la Camera dei Rappresentanti in mano ai democratici, nonché una conseguente stretta monetaria meno vigorosa delle precedenti attese da parte della Fed. E rendimenti che dovessero stabilizzarsi, anziché continuare a salire, attirerebbero minori flussi di capitali dall’estero, attenuando la pressione rialzista sul dollaro. Lo stesso dicasi per il comparto azionario: Wall Street sta diventando più proibitiva per la finanza straniera, tra valore dei titoli ai massimi storici e super dollaro. Difficile scommettere ancora al rialzo su di essa.

Infine, occhio all’inflazione americana, in discesa, pur sempre sopra il target del 2%, sin dal giugno scorso. E l’andamento del petrolio darebbe una mano proprio al raffreddamento dei prezzi, con le quotazioni del Brent oggi tornate sotto i 70 dollari e quelle del Wti sotto i 60 dollari, ai minimi da inizio aprile. Un greggio meno caro impatta negativamente sui prezzi delle economie importatrici – e l’America continua ad esserlo, pur con il boom delle estrazioni; semmai il ripiegamento delle quotazioni si concretizza per essa anche in una dinamica più debole per un suo comparto economico – allentando la pressione sulle banche centrali. La vera minaccia al dollaro, tuttavia, paradossalmente deriva dalla principale ragione per cui si è rafforzato negli ultimi mesi: la debolezza delle principali economie mondiali. Se finora la relativa forza dell’economia USA ha giocato a favore della divisa americana, difficile che il rallentamento in atto in Europa, in Cina e Giappone non finisca per colpire la super potenza, rendendone meno dinamici i ritmi di crescita rispetto a questi ultimi trimestri.

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