E’ scontro tra governo e TIM sul piano del primo di scorporare la rete dal servizio per assegnarla in capo allo stato. Il progetto di Beppe Grillo, apparentemente ormai condiviso dal PD, prevederebbe la scissione dell’infrastruttura, la sua fusione con quella di Open Fiber e la creazione di una newco interamente nelle mani dello stato, magari controllata dalla Cassa depositi e prestiti. Open Fiber ad oggi risulta controllata pariteticamente da Enel e CDP, per cui nei fatti è un operatore pubblico attivo nella fibra ottica.

TIM, invece, ha una quota di maggioranza relativa in mano ai francesi di Vivendi (23,94%), ma il consiglio di amministrazione è guidato dall’asse tra CDP (9,89%) e fondi esteri, tra cui Elliott.

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L’amministratore delegato, Luigi Gubitosi, resta nettamente contrario allo scorporo e, in ogni caso, vorrebbe che la newco che nascerebbe dalla fusione tra le due reti fosse controllata a maggioranza assoluta da TIM. Il discorso non è nuovo e causa frizioni con il governo ormai da anni. La separazione tra rete e servizio è considerata condizione essenziale per creare un reale libero mercato della telefonia fissa e mobile, nonché per modernizzare l’infrastruttura, riducendo quel “digital divide” ancora forte, esistente in diverse aree dell’Italia, specie nel Meridione.

In teoria, una rete tutta in mano allo stato (in teoria, a una stessa società privata) e separata dal servizio metterebbe finalmente in concorrenza gli operatori, quando ad oggi TIM “affitta” la rete ai suoi stessi concorrenti, finendo per entrare in conflitto d’interesse e per mantenere la sua posizione dominante sul mercato. Nell’esempio della British Telecom, la rete potrebbe anche essere partecipata da tutte le compagnie operanti sul mercato domestico delle telecomunicazioni.

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Ma scorporare la rete dal servizio equivale a sottrarre a TIM una gallina dalle uova d’oro.

I ricavi all’ingrosso nel 2019 sono stati pari a 2,8 miliardi di euro, decisivi per maturare l’utile netto da 1,2 miliardi. Questo, a fronte di un fatturato complessivo di 18 miliardi, di cui 14 realizzati in Italia, il resto in Brasile. Secondo l’azienda, la rete varrebbe una media di 13 miliardi e solo a questo prezzo prenderebbe in considerazione la cessione allo stato o una fusione con Open Fiber. Il governo ha tutto l’interesse a deprimere la valutazione dell’infrastruttura; da qui, lo scontro incessante tra le parti.

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In teoria, una soluzione che contemplasse la scissione tra rete e servizio farebbe bene alla bolletta, perché la concorrenza tra le compagnie diverrebbe più forte. Ma il problema è che scorporare la rete non sarà un gioco da ragazzi. Se fosse costretta a cederla, TIM pretenderebbe non solo di essere remunerata ai prezzi di mercato, ma anche di accollare al cessionario (lo stato) una quota parte di debito e personale dipendente. Al 31 dicembre scorso, l’indebitamento finanziario netto rettificato ammontava a 23,8 miliardi, mentre l’organico disponeva di 55.198 dipendenti.

Per giungere a una soluzione di compromesso che non somigli a un esproprio, rischiamo che il governo si accolli più debiti e più dipendenti di quelli che spetterebbero in capo alla rete. Le pressioni andrebbero in tal senso da parte dei sindacati, che farebbero carte false per trasferire quanti più lavoratori presso la struttura pubblica, a tutela del posto “sicuro”. In definitiva, la rete gestita dallo stato rischia di costare a noi contribuenti parecchi quattrini. E poiché i costi andranno pur sempre coperti, agli operatori verrebbero scaricati oneri non necessariamente inferiori a quelli odierni per accedere alla rete, per cui la bolletta del telefono non è detto che si avvantaggi dello scorporo.

Anzi, potremmo finirla per pagare anche di più con la scusa degli investimenti massicci nella fibra ottica.

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