Il vice-governatore della BCE, Vitor Constancio, nel corso di una conferenza di ieri a Francoforte ha segnalato la possibilità che il target d’inflazione nell’Eurozona venga non solo centrato, bensì pure superato, mantenendo un certo grado di accomodamento monetario e tenendo conto che l’inflazione sia stata nell’area al di sotto dell’obiettivo negli ultimi anni. Quella del numero due dell’istituto è una riflessione in atto almeno da un anno nel board, ovvero se la BCE debba spingersi fino ad accettare una crescita tendenziale dei prezzi più alta del target (“di poco inferiore al 2”) per un certo periodo di tempo, in modo da compensare quella insufficiente degli ultimi 4 anni e mezzo.

In realtà, per Mario Draghi si tratta di segnalare al mercato di volere fare sul serio. Pur mantenendo invariato il tasso-obiettivo a medio termine, facendo trapelare una certa tolleranza verso un tasso superiore per qualche tempo, surriscalderebbe le aspettative stesse d’inflazione, in modo da centrarle prima del previsto. (Leggi anche: Cambio euro-dollaro schizza dell’1% sulle parole di Draghi)

E stando alla conferenza stampa successiva all’ultimo board di giovedì scorso, da qui al 2019 non soltanto l’obiettivo sui prezzi non sarà raggiunto, ma negli ultimi mesi sembra allontanarsi ulteriormente, essendo state le stime tagliate di un decimale per il biennio e rispettivamente all’1,2% e all’1,5%. Draghi dovrà fare di tutto per evitare che l’euro continui a rafforzarsi, altrimenti l’impatto sull’inflazione sarebbe ancora più negativo, abbassando il costo dei beni importati.

Le ripercussioni sulle altre banche centrali

La BCE è una banca centrale molto grande, attuando la politica monetaria della seconda area più ricca al mondo. Ad essa guardano tutte le altre banche centrali nel resto d’Europa, sia quelle dell’est, legate all’euro da un “crawling peg”, ovvero da un cambio con variazioni limitate, sia quelle del nord, dove il ciclo economico non coincide perfettamente con quello dell’Eurozona, ma è ad esso molto connesso.

Uno dei casi simbolo del clima di attesa per le prossime mosse del governatore italiano lo offre la Svezia, dove la Riksbank ha tagliato i tassi in territorio negativo, imbarcandosi negli ultimi tempi anch’essa in un esperimento monetario non convenzionale, ma oggi si trova a fronteggiare un’inflazione già oltre il target del 2%, salita al 2,1% in agosto, stimolata da una crescita economica attesa al 3% per quest’anno.

Il governatore Stefan Ingves sostiene che sarebbe “troppo rischioso” avviare la svolta monetaria, se non prima faranno lo stesso le altre banche centrali, come la BCE per prima, altrimenti la corona svedese potrebbe rafforzarsi e rallentare la crescita dei prezzi interni. (Leggi anche: La Svezia anticipa Draghi e vara altri stimoli)

Reazione a catena sulle altre banche centrali

Non parliamo della Svizzera, dove la SNB di Thomas Jordan ha da anni adottato tassi negativi sui depositi delle banche, azzerato i tassi di riferimento e ampliato le riserve valutarie a un livello record, superiore allo stesso pil elvetico; tutto, pur di non importare deflazione, essendo stato eliminato il cambio minimo contro l’euro nel gennaio 2015, introdotto unilateralmente nel settembre del 2011. Con le elezioni francesi, il franco svizzero ha guadagnato quasi il 7% contro l’euro, attestandosi a un rapporto di 1,1467 di ieri, ai massimi da inizio 2015. Resta il fatto che Zurigo non può permettersi di alzare i tassi prima della BCE, altrimenti la già infima inflazione allo 0,5% di agosto tornerebbe negativa. Eppure, Jordan avverte la necessità di cambiare rotta, dato che il livello delle riserve in valuta estera non potrà crescere all’infinito. (Leggi anche: Franco svizzero verso il cambio minimo, ma adesso la Corea del Nord si mette di traverso)

E che dire della Bank of England, che si trova nella complicata condizione di dovere gestire l’uscita dalla UE del Regno Unito, la quale richiede allo stesso tempo sostegno all’economia britannica e attenzione all’impatto che la Brexit sta già avendo sulla sua inflazione, salita in agosto al 2,9% dal 2,6% di luglio, nettamente al di sopra del target.

A seguito della pubblicazione del dato, la sterlina ieri è salita a un cambio di 1,33 contro il dollaro, il livello più alto dalla fine di giugno dello scorso anno, pur restando a -11,3% dalla seduta precedente al referendum sul divorzio tra Londra e Bruxelles. Il mercato sta scontando la maggiore probabilità di una stretta imminente da parte della BoE, ma il governatore Mark Carney spera di dovere procedere a un rialzo dei tassi contemporaneamente alla BCE, altrimenti l’apprezzamento del cambio metterebbe a rischio la crescita dell’economia UK.

Il punto è che Draghi non è detto che alzerà i tassi così presto, anzi l’uscita dall’accomodamento monetario sarebbe più graduale di quanto immaginiamo, tenendo conto che l’inflazione nell’area resti bassa e che la stessa crescita del pil, per quanto ai massimi da un decennio, non sarebbe tale da giustificare l’avvio di una stretta. E un terzo delle esportazioni di Svezia e Svizzera, nonché quasi la metà di quelle britanniche si hanno proprio verso l’Eurozona, ragione per cui queste economie non potrebbero permettersi un eccessivo rafforzamento del cambio contro l’euro, finendo altrimenti per subire un danno. Quando Draghi alzerà i tassi, o meglio, quando preparerà i mercati ufficialmente alla stretta, si noterà un effetto domino tra gli istituti, con l’immediato aumento dei tassi in mezza Europa, da Londra a Stoccolma, da Zurigo alle capitali dell’est.