Da oggi, le quote latte nell’Unione Europea non esistono più. Finisce così un’era, iniziata nel lontano 1984 e che ha segnato un’intera generazione di produttori caseari e allevatori europei. Pertanto, dopo 31 anni, la produzione del latte è libera e non è soggetta alle quote fissate per ciascun paese. Il cambiamento per il settore è significativo, tanto da preoccupare gli addetti ai lavori. Potrebbe sembrare paradossale che le associazioni di categoria, dopo avere combattuto per circa un ventennio le quote latte, adesso lamentino la loro eliminazione.

In effetti, analizziamo il loro significato e le conseguenze della loro soppressione.

Pro e contro delle quote latte

Il sistema delle quote nacque nel 1984 per cercare di arrestare la crisi del settore. Fissando un tetto alla produzione di ciascun paese membro della UE, l’offerta sarebbe rimasta limitata e ciò avrebbe sostenuto i prezzi. Senonché, proprio la formazione di prezzi superiori a quelli di mercato ha indotto molti allevatori a fare i furbi, ossia a produrre più latte del consentito. Un pò come accade con il cartello del petrolio, quando i membri dell’OPEC concordano un livello di produzione per tenere alte le quotazioni, ma ciascuno ne approfitta, in verità, per produrre di più e aumentare i profitti, con la conseguenza che successivamente si registra un calo dei prezzi. E’ accaduto proprio ciò in questi anni. L’Italia è stata multata sin dal 1996 – primo anno di comminazione delle sanzioni europee – per quasi 4,5 miliardi di euro, perché i suoi allevatori non hanno rispettato in molti casi le quote loro attribuite. Un costo di 75 euro a testa, che è stato al centro di forti tensioni politiche, specie al Centro-Nord del paese.

Allevatori italiani meno efficienti

Nonostante questo, le quote latte non hanno impedito che la platea dei produttori italiani crollasse dalle 180.000 unità di inizio anni Novanta fa alle 36.000 di oggi: -80%.

Il guaio è che l’Italia, pur producendo un latte di ottima qualità, non è competitiva sui prezzi. Alla stalla, un litro viene pagato all’allevatore 35 centesimi, contro i 31 in Francia, i 32 in Germania, i 28 in Polonia e i 19 della Lituania. E sebbene i prezzi siano da noi più alti, arrivano a malapena a coprire i costi, segnalando una maggiore inefficienza produttiva del Belpaese. L’Italia produce ogni anno 11 milioni di tonnellate di latte e ne importa 8,6 milioni. Già oggi, quindi, quasi la metà dei consumi sono di latte importato. Per fortuna, però, i formaggi italiani Dop assorbono tra il 40% e il 50% del latte prodotto nel nostro paese, a differenza della Francia, dove si fa un uso intenso di latte in polvere e di burro. Un altro dato positivo per la filiera tricolore è la preferenza dei consumatori italiani per il latte fresco, cosa che avvantaggia le produzioni locali.

Produzione latte italiano a rischio?

Resta il fatto nell’ultimo anno, il prezzo del latte crudo è diminuito del 12%. Insieme alle difficoltà di accesso al credito rappresenta il fattore di maggiore stress per i produttori nazionali, che temono di subire un ulteriore crollo dei loro redditi, cosa che spazzerebbe via dal mercato buona parte delle poche stalle rimaste. Inoltre, nel 2014 sono state comminate dall’Europa sanzioni per 40 milioni di euro ai produttori italiani, che dovranno essere anch’esse pagate, oltre ad altri 2 miliardi ancora da recuperare.   APPROFONDISCI – Quote latte: Italia deferita, in arrivo nuove sanzioni   Considerando, infatti, che non esiste più alcuna limitazione dell’offerta, il prezzo potrebbe diminuire ulteriormente, mettendo a rischio proprio gli allevatori meno efficienti, che per quanto sopra accennato, si trovano in molti casi nel nostro paese. Il consumatore si avvantaggerebbe dei minori prezzi, sebbene non abbia ad oggi alcuna tutela rispetto al latte qualitativamente inferiore importato dall’estero e venduto sugli scaffali dei supermercati italiani senza alcuna indicazione sulla provenienza.

Proprio l’etichettatura, se fosse mai approvata dall’Europarlamento, avvantaggerebbe il latte italiano, perché molti consumatori lo sceglierebbero, pur pagandolo qualche centesimo in più. Ma bisognerebbe scontrarsi con gli interessi dell’Europa dell’Est e della Germania, che non avrebbero alcuna convenienza (tutt’altro!) a segnalare l’origine degli allevamenti.