Uscendo dalle seconde consultazioni con il premier incaricato, il leader della Lega, Matteo Salvini, si è mostrato soddisfatto per la rassicurazione ricevuta da Mario Draghi che non ci saranno aumenti delle tasse. Poco prima, l’alleata Giorgia Meloni, l’unica che non voterebbe la fiducia al nuovo esecutivo, aveva espresso rammarico sulla mancata introduzione della “flat tax”. Ecco, prende forma il piano di riforma fiscale del prossimo governo, che cercherà sul tema di accontentare un po’ le opposte fazioni. E non sarà né facile, né auspicabile, dato che un modello fiscale in sé deve essere coerente e non pasticciato.

Ad ogni modo, emerge per l’appunto che Draghi non voglia introdurre la “flat tax”, quell’aliquota unica al 15% su tutti i redditi, che il centro-destra propone da anni. Al contrario, il premier incaricato punterà su un modello di progressività dell’IRPEF, pur cercando di renderlo compatibile con l’incentivo al lavoro. Cosa significa nel concreto? Un’imposta si dice progressiva, quando la sua aliquota aumenta rispetto al reddito. Tuttavia, essa disincentiva l’occupazione e incentiva l’economia sommersa. Un esempio: se guadagno fino a 28 mila euro all’anno, pagherò sopra i 15.000 euro il 27%. Dai 28 fino ai 55 mila euro, l’aliquota s’impenna al 38%. Quindi, se lavorassi un po’ di più e guadagnassi, per ipotesi, 29 mila euro, sui 1.000 euro aggiuntivi pagherei 110 euro di IRPEF in più, cioè 380 anziché 270.

A tale proposito, stando alle indicazioni che arrivano da PD e Leu, sembra che Draghi possa prendere in considerazione il modello tedesco, in base al quale la progressività dell’imposta evita quei “salti” tipici degli scaglioni, avvenendo secondo un algoritmo che innalza gradualmente la tassazione man mano che il reddito aumenta. Questa riforma non sarebbe ben vista dal centro-destra e da Italia Viva e, comunque, continuerebbe a disincentivare l’occupazione, pur in maniera più soft.

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La giungla fiscale complica qualsiasi riforma

Il ragionamento è complicato dalla confusione creata dall’attuale sistema fiscale, che si regge su una miriade di detrazioni e trattamenti differenziati tra categoria e categoria. Uno dei problemi da risolvere una volta per tutte sarà il bonus Renzi, innalzato di recente da 80 a 100 euro al mese. Così com’è stato congegnato sin dal 2014 non è formalmente una detrazione e, soprattutto, accresce quel “salto” per i contribuenti oltre una certa soglia di reddito, contribuendo a far impennare ulteriormente la tassazione. L’ipotesi, tecnicamente tutt’altro che semplice, sarebbe di sostituirlo con un taglio delle aliquote per i redditi medio-bassi, tale da esitare per i lavoratori un reddito netto sostanzialmente simile. Sul piano contabile, finalmente il bonus IRPEF non verrebbe più considerata una voce di spesa.

Ma come finanziare queste misure di riduzione complessiva del carico fiscale? Attraverso il taglio delle detrazioni. Ne esistono ormai ben 513 e sottraggono allo stato gettito fiscale per circa 100 miliardi all’anno. Eliminarle non sarà neppure in questo caso semplice. Anzitutto, perché molti contribuenti hanno approfittato di questo o quell’incentivo fiscale per acquistare un bene o un servizio, confidando in una riduzione pluriennale dell’IRPEF. Venire meno alla parola data sarebbe dannoso per la credibilità dello stato, forse persino incostituzionale. Inoltre, le detrazioni, che aumentano di anno in anno, sono lo specchio di una sorta di “clientelismo” dei governi di turno a favore di questa e quella categoria. Si pensi ai bonus mobili o quello per gli abbonamenti in palestra, etc.

Tagliare la giungla delle detrazioni andrebbe anche nella direzione di rendere il fisco più equo, dato che le varie analisi svolte su di esse hanno esitato un paradosso: lo stato con una mano fissa aliquote elevate sui redditi medio-alti, con l’altra abbassa il carico fiscale su di essi attraverso le detrazioni.

I redditi incapienti, infatti, non possono accedervi, se non parzialmente. Pertanto, queste misure finiscono per premiare coloro che possono “scaricare” dalle tasse importi anche ingenti. Per contro, la riduzione delle detrazioni contribuirebbe a innalzare la pressione fiscale sui redditi più alti, tornando a disincentivare l’occupazione, a meno di compensarla con adeguati tagli alle aliquote. Dubitiamo che ciò avvenga, specie se consideriamo che il governo Draghi sarà sostenuto verosimilmente da forze come PD e Movimento 5 Stelle, oltre che Leu, notoriamente contrari ad abbassare le tasse ai ceti medio-alti.

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Niente aumenti di tasse

Infine, cosa accadrà a IVA e IMU? Sappiamo da molti anni che i “tecnici” siano molto propensi ad assecondare l’impostazione europea, in base alla quale la pressione fiscale andrebbe abbassata sui redditi e innalzata sui consumi e gli immobili. Tuttavia, la presenza del centro-destra nel nuovo esecutivo avrebbe sventato un tale scenario, tant’è che ieri, come dicevamo nell’incipit dell’articolo, Salvini avrebbe ricevuto garanzie da Draghi che non sarà aumentata alcuna imposta e che non vi saranno né una patrimoniale, né un prelievo forzoso.

Infine, il Superbonus 110%. E’ tecnicamente una detrazione e, in teoria, dovrebbe rientrare in quell’area da sfoltire per finanziare il taglio delle tasse. Ma nel caso specifico la linea sarebbe diversa. Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega avrebbero chiesto a Draghi di mantenere e prorogare l’incentivo, al fine di sostenere l’edilizia. Non a caso, sempre ieri Salvini snocciolava il dato, in base al quale per ogni 1 miliardo speso nel settore, verrebbero creati 15 mila posti di lavoro. Dunque, il Superbonus non verrebbe toccato, anzi dovremmo attenderci uno sfoltimento della lunga trafila burocratica necessaria per accedervi e che, ad oggi, ha frenato paradossalmente i lavori di ristrutturazione, specie nei condomini. Peraltro, il maxi-incentivo verrebbe mantenuto in chiave “green”.

E sulla transizione ecologica, il premier incaricato vuole compiere sostanziali passi in avanti, anche avvalendosi dei fondi europei del Recovery Plan, ricevendo sostegno sul tema specie dai “grillini”. Sulle tasse Draghi si giocherà la faccia. Siamo abituati ormai da 30 anni ad associare i governi tecnici alle stagnate fiscali. L’ex governatore della BCE dovrà smentire tale sensazione e i partiti che lo sostengono pagherebbero un prezzo politico altissimo, nel caso in cui alle rassicurazioni non corrispondessero i fatti.

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