Angela Merkel non si candida per guidare ancora una volta il suo partito al congresso di dicembre ad Amburgo, segnalando così di rinunciare alla leadership dei cristiano-democratici tedeschi dopo 18 anni e di avviare quella “exit strategy” per porre fine alla sua brillante carriera politica, annunciando di non ricandidarsi né per la carica di deputato al Bundestag e né di correre come cancelliera alle prossime elezioni. Inoltre, ha smentito un suo interesse per la presidenza della Commissione europea o per un altro incarico alla UE.

Insomma, quando questo governo di Grosse Koalition verrà meno, l’era Merkel finirà in tutti i sensi. Era il 2005, quando dopo le dimissioni del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, la prima donna a capo del centro-destra tedesco e fino ad allora nota come “la ragazza di Kohl” corre con il vento in poppa per la cancelleria. Vincerà, ma di pochi decimali rispetto alla SPD, a causa di una campagna elettorale giudicata eccessivamente puntigliosa – promise l’abbassamento delle tasse, ma alzando l’IVA – che avrebbe anticipato lo stile spesso tecnocratico e poco politico del nuovo corso a Berlino.

In Germania il governo vacilla, da sinistra ultimatum alla Merkel

Dei quattro governi guidati, tre sono stati di coalizione con gli avversari socialdemocratici e solo uno con i liberali dell’FDP, alleati naturali per i conservatori in Germania. Proprio questa continua e necessaria coabitazione al governo tra i due principali schieramenti ha portato gradualmente la sinistra tedesca al disastro elettorale, ma anche a una costante perdita di identità dello stesso mondo conservatore, parte del quale è fuoriuscito dalla CDU sin dal 2013, dando vita alla Alternativa per la Germania, che avrebbe negli anni seguenti assunto posizioni più prettamente radicali ed euro-scettiche.

La nascita della leadership europea

Sul piano europeo, le sue doti di leadership iniziano ad essere esercitate con lo scoppio della crisi finanziaria mondiale, quando alla Casa Bianca un confuso Barack Obama ammette di non riuscire a capire a quale numero chiamare in Europa per interloquire con un unico rappresentante di tutta la UE.

Tagliando la testa al toro, l’ex presidente americano decide non a torto di affidarsi proprio a Berlino, trovando in Frau Merkel un partner credibile e deciso. Inizia la fase convulsa delle crisi dei debiti sovrani. La prima ad esplodere è in Grecia agli inizi del 2010, quando il nuovo governo socialista di George Papandreu svela che il deficit effettivo di Atene supera il 15% del pil. E’ uno choc per i mercati, il paese sta perdendo la fiducia degli investitori e serve un piano veloce per consentirgli di continuare a rifinanziarsi. Qui, la cancelliera tentenna, non decide alcunché fino a quando l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy non la mette con le spalle al muro e nel corso di una riunione europea drammatica avvenuta nel mese di maggio le chiarisce che o la Germania accetta di salvare la Grecia o la Francia esce dall’euro.

“Mutti”, come viene graziosamente chiamata in patria, accetta a malincuore di aiutare i greci, ma alle sue condizioni: assistenza finanziaria gestita dalla Troika, il comitato dei tre creditori composto da rappresentanti di UE, BCE e FMI. Lo schema viene replicato per Irlanda e Portogallo, mentre alla Spagna sarà sufficiente che le venga salvato il sistema bancario nel 2012. Il caso Grecia si rivelerà un disastro sul piano economico, finanziario e sociale. Il paese ancora oggi possiede un pil di quasi un quarto più basso di quello del 2007, in termini reali. La sola cura dell’austerità fiscale si mostra insufficiente a garantire la ripresa e svena gli stessi creditori, che in tre “bail-out” si trovano ad erogare più di 320 miliardi ad Atene. Nel frattempo, la crisi di fiducia verso l’euro colpisce anche l’Italia nel 2011, facendone esplodere lo spread e costringendo alle dimissioni il governo Berlusconi, l’ultimo di centro-destra ad oggi nel nostro Paese, dando vita a tensioni politiche che si riveleranno un boomerang per il resto d’Europa.

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Leader inflessibile e senza visione

Proprio in questa fase, Frau Merkel da un lato si mette in mostra per la sua inflessibilità nel pretendere il rispetto delle regole a presidio della moneta unica, specie in campo fiscale, dall’altro per la incapacità di compiere quei passi decisivi per rendere l’euro una unione monetaria completa a tutti gli effetti. Consapevole di non godere tra il suo stesso partito del mandato per riformare l’Eurozona e porre fine alla crisi di fiducia dei mercati, la cancelliera impone al resto dell’area il Fiscal Compact, un piano di riduzione dei debiti sovrani al 60% del pil in 20 anni. In cambio, avalla informalmente il “quantitative easing” della BCE, l’acquisto di assets per decine di miliardi di euro al mese e finalizzato a contrastare la bassa inflazione, anche se nei fatti servirà più a sostenere i bond degli stati in crisi.

La popolarità della cancelliera resta alta in patria fino al 2015, mentre nel resto d’Europa è percepita come un’arpia, ottusa e matrigna, incapace di andare oltre calcoli ragionieristici e di comprendere appieno le dinamiche sottese all’euro. L’economia tedesca fiorisce, con la disoccupazione ai minimi dalla riunificazione delle due Germanie, l’export in boom e conti pubblici in attivo. Berlino viene invidiata dal resto del mondo, anche se si attira gli strali dei partner europei prima e dell’America di Donald Trump dopo, a causa di una politica economica improntata eccessivamente sul risparmio e che finisce per esportare deflazione nell’Eurozona, contribuendo ad aggravare gli squilibri globali, come il forte disavanzo commerciale a stelle e strisce.

Il passo falso sull’immigrazione

Dicevamo, la Merkel è stata popolarissima in Germania fino a tre anni fa, quando compie un passo falso: apre le frontiere a un milione di profughi senza condizioni. La scelta viene assunta per allentare la pressione sugli altri stati comunitari, tra cui Austria e Ungheria, che avevano minacciato la chiusura delle loro frontiere e il ripristino dei controlli, mandando in fumo l’area Schengen. La cancelliera intuisce che se ciò accadesse, a rischiare sarebbe la stessa sopravvivenza dell’Unione Europea, che si fonda tra l’altro proprio sulla libera circolazione delle persone. E’ l’inizio della sua fine politica. I tedeschi, specie quelli che l’avevano votata nel decennio precedente, non gradiscono e i consensi per lei e il suo partito iniziano ad arretrare fino ai minimi storici di questi mesi.

Tra gli errori strategici della cancelliera non si può non citare quello immenso della Brexit. Il governo di David Cameron chiede a Bruxelles un negoziato per strappare condizioni peculiari per consentire al Regno Unito di rimanere nella UE, ponendo fine a un dibattito interno che va avanti da troppo tempo. I commissari, su pressione proprio di Berlino, si mostrano poco flessibili, concedono a Londra poco sulle limitazioni all’ingresso di altri cittadini comunitari e il risultato è sotto gli occhi di tutti: il 23 giugno 2016, il 52% dei sudditi di Sua Maestà decide di lasciare la UE. Nel frattempo, l’euro-scetticismo dilaga un po’ in tutti gli altri stati, con la Francia a rischiare l’elezione di Marine Le Pen, che si auto-proclama l’anti-Merkel d’Europa. Pur trafitta dall’europeista Emmanuel Macron al ballottaggio delle presidenziali, è il segno che la disaffezione verso l’Europa a trazione tedesca monta a livelli impensabili fino a pochi anni prima. Arriva il 2018 e le elezioni politiche italiane confermano la vittoria delle forze euro-scettiche. Nasce il primo governo anti-UE, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, che proprio in queste settimane sta ingaggiando una dura battaglia con la Commissione sulla manovra di bilancio e i cui esiti appaiono imprevedibili.

In definitiva, quale Europa lascia la cancelliera Merkel? Rispetto a quando ha mosso i primi passi da capo di governo della Germania, senz’altro il Vecchio Continente si mostra oggi molto più disunito, lacerato da risentimenti frutto di crisi economiche e incomprensioni sul piano politico. Mutti è stata molto brava fino a qualche tempo fa a sfruttare la UE per fare gli interessi dei tedeschi, ma non ha compreso del tutto che la corda è stata tirata fin troppo e che nel caso di Londra si è, addirittura, spezzata. Quando il presidente Macron ha proposto lo scorso anno una riforma dell’Eurozona che andasse nella direzione di una maggiore integrazione fiscale e politica nell’Eurozona, la reazione del suo governo è stata fredda e negativa, a conferma di come la Germania non pensi alla UE e all’euro come a strumenti di convergenza con il resto dell’area, bensì da utilizzare a convenienza per fare il solo interesse nazionale tedesco.

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Leader sì, ma ha sprecato l’occasione

Resta indubbio che la Merkel sia stata una leader, anche perché circondata da una miriade di nani. Passerà certamente alla storia per la sua mano ferma nel gestire le situazioni di crisi, non anche per essere dotata di alcuna visione di ampio respiro. La sua Europa è stata ed è necessariamente quella degli zero virgola, delle regole sul deficit, dei tecnicismi sulle banche, per il semplice fatto che la cancelliera non è mai stata una politica nel vero senso della parola, mostrandosi più una tecnocrate inviata da Berlino per fare sì che le istituzioni comunitarie non facessero danni alla Germania. Forse, ha risentito del dato biografico, nata e cresciuta nella Germania dell’Est in un clima culturale grigio e certamente dai connotati affatto occidentali. Sarebbe ingeneroso, tuttavia, addebitarle ogni problema non risolto o esploso nel continente da quando è cancelliera. In fondo, si è trovata nella difficile posizione di salvare decenni di progetti politici ed economici, che rischiavano e tutt’ora rischiano di essere spazzati via dall’ascesa del pensiero sovranista da un lato e dalle divergenze economico-finanziarie tra gli stati dall’altro. E’ riuscita a tenere tutti apparentemente uniti fino a quando non ha contribuito ella stessa con il suo indecisionismo e l’incancrenimento dei problemi a erodere i consensi degli schieramenti tradizionali, finendo per rafforzare i nemici giurati di questa UE.

Dovrebbe chiedersi come mai tutti coloro che le sono stati vicini sono stati impallinati dai rispettivi elettori, come se fosse diventata negli anni una sorta di Re Mida all’incontrario. E’ stato così per Sarkozy nel 2012, peggio ancora per la presidenza Hollande, per non parlare di Mario Monti e i governi del PD in Italia e persino di Silvio Berlusconi alle ultime politiche. E ci vogliamo limitare a due dei grandi stati comunitari, perché lo stesso discorso lo potremmo replicare per qualsiasi altro. La sua è stata una leadership, ma anche un’occasione persa per rendere l’Europa un progetto pregnantemente politico e non solamente un’accozzaglia di vincoli e legislazioni penetranti in ogni aspetto della vita di mezzo miliardo di cittadini.

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