Giuseppe Leogrande è formalmente da ieri il nuovo commissario di Alitalia, il nono per l’esattezza. 56 anni, originario di Ravenna, avrà come compito di transitare la compagnia aerea verso l’ultimo miglio del piano di salvataggio, altrimenti sarà fallimento vero e proprio. Il suo insediamento si fonda su tre punti: taglio dei costi, riduzione dell’organico e ricerca di alleanze internazionali. Quanto al primo, si passerebbe per una revisione dei contratti di fornitura e di leasing, mentre non si esclude che le attività di “handling” a Fiumicino e annessi 3.170 dipendenti vengano ceduti.

Il problema è che non puoi vendere un ramo della prima azienda cliente dell’aeroporto romano, senza che prima si sappia che fine farà proprio la compagnia.

E arriviamo al capitolo esuberi. Si parla di una riduzione del personale di circa 2.500 unità, la metà dei tagli richiesti da Lufthansa per sedere al tavolo delle trattative. Ora, esuberi non significano necessariamente licenziamenti, perché l’idea che avanza con la nomina del nuovo commissario sarebbe quella dei prepensionamenti. In pratica, assodato che i dipendenti Alitalia a ridosso dell’età pensionabile siano pochi, servirebbe uno “scivolo”, lo strumento con cui si consente ai lavoratori nelle crisi aziendali di maggiori dimensioni di usufruire di un pensionamento anticipato rispetto all’età ufficiale.

Se questa fosse la strada, il pedaggio per accedervi continueremmo a pagarlo noi contribuenti italiani. I prepensionamenti ricadrebbero sulle spalle della collettività, quando già nei giorni scorsi il governo ha stanziato altri 400 milioni di euro per l’ennesimo prestito-ponte, in sé sufficiente a far respirare la compagnia fino alla fine di maggio. Non sarà l’ultimo. Infatti, la partnership a cui Leogrande guarda con maggiore interesse sarebbe con Lufthansa, i cui vertici hanno fatto sapere che entrerebbero in Alitalia solo a riorganizzazione avvenuta, cioè non prima dei prossimi 18 mesi.

Il fallimento di Alitalia resta la strada maestra, l’ipotesi “spezzatino” non regge

Lievitano i costi per salvare Alitalia

Dunque, tra 5 mesi e mezzo saremmo punto e a capo.

La liquidità aziendale in cassa, pur a ridosso della stagione estiva, non sarà sufficiente a garantire l’operatività nei mesi successivi e il governo, quale che esso sia, dovrà rimettere mano al portafogli. Peccato che abbiamo già iniettato ben 1,3 miliardi con l’avvio della gestione commissariale e che difficilmente matureranno quegli interessi salati del 10% fissati solo formalmente per mascherare da credito quel che a tutti gli effetti è un prestito a fondo perduto. Già con la scorsa legge di Stabilità, si decise di abbuonare gli interessi sui prestiti ricevuti in passato, per cui lo stato non beccherà un solo euro nel migliore dei casi; probabile, anzi, che Alitalia non sarà mai in grado di restituire il denaro e che il Tesoro lo trasformi in capitale con l’ingresso nell’azionariato da partner di minoranza.

Leogrande ha già salvato Blue Panorama, ma quella era una realtà di circa 10 volte più piccola di Alitalia come numero di vettori e con appena 500 dipendenti contro i circa 12.000. Quest’anno, l’ex compagnia di bandiera chiuderà con perdite a bilancio per 600 milioni di euro, malgrado due anni e mezzo di cure dimagranti dei commissari, che pure qualcosa di positivo hanno smosso in azienda. Sono soltanto 26 su 113 gli aerei destinati alle rotte a lungo raggio, un dato che ci fa riflettere sulla pochezza di vedute di una realtà iper-sindacalizzata e che punta a sopravvivere più per procrastinare il suo status di carrozzone pubblico, che non per rilanciarsi e creare condizioni di crescita strutturale. E la prospettiva dei partner tedeschi serve almeno a guadagnare tempo, a calciare il barattolo nell’attesa che un qualche miracolo ne impedisca il fallimento. Nel frattempo, i contribuenti pagano.

Salvataggio Alitalia, tanti i pretendenti e nessun piano industriale

[email protected]