Un dollaro scambia ormai contro 8.500 lire libanesi, a fronte di un tasso ufficiale di 1.512. Secondo il Big Mac Index, la valuta del Paese dei Cedri sarebbe la più sotto-valutata al mondo, cioè di oltre l’81%. A causa del collasso del cambio, l’inflazione in Libano è esplosa a settembre al 120%. La vita sta diventando ogni giorno più cara e a farne le spese sono anche i coltivatori di cannabis. Nel nord del paese, le piantagioni abbondano da sempre e neppure la campagna congiunta svolta dal governo con i militari americani negli anni scorsi ha fruttato i risultati sperati.

Anzi, nel febbraio di quest’anno il Parlamento ha approvato una legge per la liberalizzazione della coltivazione e dell’uso di cannabis a scopo terapeutico.

A che punto siamo con la crisi in Libano? Peggio di quanto immaginiamo

Paradossalmente, ad essere rimasti contrariati sono stati proprio gli agricoltori di cannabis, che preferirebbero continuare a lavorare nell’illegalità. Probabile che abbia influito anche il divieto imposto alle coltivazioni di Yamouneh, una piccola cittadina del centro-nord di circa 5 mila abitanti, le cui piante per il governo restano proibite per l’elevato tasso di THC. Ad ogni modo, proprio quando il business dell’hashish iniziava ad essere riconosciuto dalle autorità, molti libanesi stanno convertendo le produzioni, optando perlopiù per le mele. Il fatto è che coltivare la cannabis non rende più. Anni fa, un chilo arrivava ad essere venduto anche 800 dollari sul mercato nero all’estero, con punte superiori ai 1.000 dollari. Adesso, si è scesi a circa 100 dollari.

Coltivare cannabis non rende

Il collasso della lira ha reso molto più costose le importazioni di carburante e fertilizzanti necessari per la crescita delle piante, mentre i prezzi arretrano per la chiusura di molti canali intermedi di vendita in Siria, dove da quasi un decennio imperversa una grave guerra civile.

Il Libano è da molto tempo il terzo produttore di cannabis al mondo dopo Marocco e Afghanistan. La pianta cresce qui praticamente ovunque e dagli studi realizzati dal governo un paio di anni fa era emerso che il settore avrebbe potuto generare ricavi per 1 miliardo di dollari all’anno, quasi due punti di pil.

Beirut è stata sconquassata da una potente esplosione al porto agli inizi di agosto, che ha provocato oltre 200 vittime, migliaia di feriti e decine di migliaia di sfollati. La responsabilità dell’incidente o dell’attentato resta ignota, mentre l’economia collassa già da un anno con le dimissioni dell’allora premier Saad Hariri. La crisi politica innescava esattamente un anno fa una grave fuga dei capitali, il collasso della lira e il tonfo del PIL. Il successore Hassan Diab si è dimesso ad agosto dopo l’esplosione e ad oggi non ha un successore per via delle contrapposizioni sempiterne tra gruppi politici sciiti, sunniti e cristiani. Il presidente francese Emmanuel Macron, che fino a poche settimane fa aveva seguito l’evoluzione politica, per il momento ha deciso di non occuparsene più, indispettito dalla scarsa serietà dei protagonisti in campo.

Hariri potrebbe essere nuovamente nominato premier e si ritroverebbe eventualmente a guidare un’economia del tutto collassata rispetto a quella lasciata in eredità, a caccia di prestiti internazionali e con una popolazione sfiduciata e profondamente arrabbiata per il settarismo delle istituzioni. E se nemmeno il traffico di droga rende più, è davvero il caso di dire che le cose si sono messe proprio male.

Libano rimasto senza governo, luce e farina, ricostruzione lunga e difficile

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