Il ministro del Petrolio, Bijan Zanganeh, ha dichiarato che il governo di Teheran si pone come obiettivo un aumento delle estrazioni in Iran ai livelli degli anni Settanta. In numeri, ha spiegato che bisognerà tendere a 6,5 milioni di barili al giorno, così da offrire risposte all’economia, ma anche per consolidare il potere politico nella regione, ha aggiunto.

Pur non avendo fatto alcun riferimento esplicito, di fatto il ministro ha ammesso che le estrazioni di petrolio in Iran fossero notevolmente più elevate sotto la shah di Persia.

Esso fu cacciato dall’ayatollah Khameini con la Rivoluzione Islamica del 1979. Oggi, il paese ha una produzione di 2,5 milioni di barili al giorno e le esportazioni sono state quasi azzerate dalle sanzioni americane. Esse erano state introdotte alla fine del 2011 e sospese dagli inizi del 2016, a seguito dell’accordo nucleare sottoscritto da Teheran con l’allora amministrazione Obama. Ma nel 2018, l’amministrazione Trump si ritirò dall’accordo, sostenendo che l’Iran stesse arricchendo l’uranio per scopi militari.

In queste settimane, la nuova amministrazione del presidente Joe Biden sta riesumando l’accordo del 2016 con l’obiettivo di superare l’embargo. Gli analisti dell’OPEC si aspettano che l’Iran sarà in grado di far affluire sul mercato tra 500.000 e 1 milione di barili al giorno di petrolio entro la fine dell’anno. Una boccata d’ossigeno per un’economia al collasso, alle prese con alti tassi di disoccupazione, specie giovanile, un’inflazione al 50% e un tasso di cambio che sul mercato nero vale una frazione di quello ufficiale.

Petrolio in Iran per ragioni di potere

Risalire ai livelli di petrolio in Iran estratti negli anni Settanta, tuttavia, non sarà per niente facile. Anzi, obiettivamente quella di Zanganeh sembra una frase buttata lì per creare aspettative miracolistiche alla vigilia delle elezioni presidenziali. Il paese manca di capitali da investire.

A differenza dell’Arabia Saudita, non ha accantonato risorse neppure nel periodo in cui le quotazioni del greggio superarono i 100 dollari. Gli investimenti richiederebbero, poi, verosimilmente la partnership con compagnie straniere, cioè occidentali. E malgrado la fine dell’embargo ormai prossima, non è detto che se ne trovino di disponibili. In molte temeranno di finire nel mirino della Casa Bianca.

Venerdì 18 giugno, si terranno le elezioni presidenziali e in corsa non ci sarà il presidente uscente Hassan Rohani, che ha già espletato due mandati consecutivi. Né correrà alcun candidato dell’area riformista. Stando ai sondaggi, primo sarebbe l’ultra-conservatore Ebrahim Raisi, seguito a distanza da Abdolnaser Hemmati. Si tratta del governatore della banca centrale fino a poche ore fa. Quest’ultimo è accreditato di meno del 10% dei consensi, ma spera di raccogliere il sostegno di quell’area riformista priva di un proprio uomo.

L’Iran ha continuato ad esportare petrolio, in barba alle sanzioni americane, principalmente alla Cina e scaricando la materia prima da una nave all’altra in acque internazionali, così da nasconderne la provenienza. Oltre all’obiettivo economico, l’aumento delle estrazioni servirebbe a rafforzare la presa nella regione. Teheran combatte costose “guerre per procura” contro i sauditi nello Yemen e in Siria, mentre continua a controllare il Libano tramite Hezbollah. Per questo ha bisogno di fiumi di denaro che non possiede e la popolazione iraniana è sempre più convinta che le risorse vengano mal impiegate e dirottate all’estero per campagne di influenza che alla fine della fiera non sostengono affatto il suo benessere. Con più dollari in cassa dopo la fine delle sanzioni, il Medio Oriente rischia di vedere acuite le tensioni tra potenze regionali.

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