L’IPO di Aramco per gli osservatori internazionali è andata meno bene delle attese, ma il debutto al Tadawul di Riad non ha deluso. Mercoledì, la prima seduta di negoziazione del titolo della compagnia petrolifera saudita ha chiuso con un rialzo dei prezzi di circa il 10%, seguito l’indomani da un +4,55% a 36,80 rial, avendo toccato un massimo in apertura di 38,7 rial, nettamente sopra i 32 dell’IPO. E così, al termine della giornata di ieri, la compagnia valeva quasi 1.963 miliardi di dollari, sfiorando la capitalizzazione dei 2.000 miliardi pretesi dal regno e negatagli dagli advisor di Europa e America.

Il colosso mondiale del petrolio vale adesso in borsa esattamente quanto il pil dell’Italia.

L’IPO di Aramco è stata un flop di successo: i numeri choc

Una rivincita per il principe ereditario Mohammed bin Salman, che può rivendicare dinnanzi al mondo finanziario di averci visto giusto sulla quotazione, anche se i conti si devono fare nel corso delle settimane, dei mesi e degli anni. In fondo, che il debutto al Tadawul sarebbe avvenuto col botto sembrava quasi scontato. Il problema semmai per Aramco sarà di mantenere tali valutazioni nel medio e lungo periodo.

E qui sorgono i dubbi. Perché il mercato dovrebbe prezzare un asset centinaia di miliardi di più di quanto lo avesse valutato in fase di IPO? Se gli investitori stranieri hanno segnalato, a torto o a ragione, che Aramco per loro valesse mediamente sui 1.200-1.300 miliardi, adesso perché mai dovrebbero acquistarne le azioni a prezzi di circa i due terzi più alti? In effetti, il successo dello sbarco in borsa sarebbe legato agli acquisti locali, cioè di residenti e istituzionali sauditi o tutt’al più del Golfo Persico.

Le ombre sulla capitalizzazione

Ma un mercato finanziario domestico e per giunta sotto-dimensionato difficilmente basterà nel tempo a reggere le quotazioni della società più capitalizzata al mondo.

Anche perché non dovremmo dimenticare che anche dopo la parzialissima “privatizzazione”, il 98,5% del capitale continua ad essere in mano allo stato saudita. Esso dovrà dimostrare con i fatti di rispettare il capitale privato, che per quanto estremamente minoritario, avrà certamente diritto ad accedere alle informazioni finanziarie sin qui riservate, al fine di valutare la governance e di prendere decisioni sull’opportunità di mantenere l’investimento o meno.

Il fatto che gran parte della quota istituzionale sia stata sottoscritta da soggetti legati al governo stesso non aiuta il mercato a farsi un’idea positiva dell’operazione, intravedendo nei numeri un successo a metà e sostenuto grosso modo dalla longa manus dello stato. Ma, soprattutto, questa operazione si rivelerà cruciale per consentire all’economia domestica di diversificarsi, cioè di sganciarsi dall’eccessiva dipendenza che ancora mostra verso il petrolio?

Se l’obiettivo del principe consisteva nell’attirare i capitali stranieri, come del resto aveva lasciato immaginare con la presentazione del progetto “Neom”, non può ancora di certo dirsi centrato. La privatizzazione ha esitato un semplice trasferimento di risorse all’interno dello stesso regno, in molti casi su pressioni del governo. I quasi 30 miliardi che verranno incassati, inclusa la “greenshoe”, tamponeranno le casse statali per pochi mesi, considerando che per il 2020 Riad si aspetta di alzare il deficit di bilancio a 187 miliardi di rial, poco meno di 50 miliardi di dollari. Non un problema nell’immediato, avendo il regno modo di attingere all’indebitamento (ancora al 26% del pil) e alle riserve valutarie, a quasi 500 miliardi di dollari, per colmare i “buchi”. In attesa che le entrate decollino grazie a un’economia privata non petrolifera più sviluppata.

La rivoluzione saudita passa per un paradiso finanziario futuristico

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