Il petrolio è entrato in modalità correzione, così come Wall Street, avendo perso più del 10% dai massimi toccati a fine gennaio, quando le quotazioni avevano oltrepassato i 70 dollari al barile per il Brent e i 66 dollari per il Wti. Adesso, si attestano rispettivamente a 62,39 e 58,96 dollari. Il ripiegamento sta coincidendo con i dati aggiornati sulla produzione negli USA, che la settimana scorsa ha superato i 10 milioni di barili al giorno. Secondo la IEA (International Energy Agency), la domanda di greggio nel mondo sarà quest’anno di 1,4 milioni di barili al giorno superiore a quella del 2017, ma allo stesso tempo il Dipartimento dell’Energia di Washington stima per la fine del 2018 estrazioni negli USA a quota 11 milioni di barili al giorno.

In sostanza, il balzo della produzione americana sarebbe in sé in grado da solo di soddisfare l’aumento della domanda.

Altri fattori stanno incidendo sulle quotazioni. Ormai, le aspettative d’inflazione negli USA si starebbero surriscaldando e con esse anche i tassi reali attesi sono più alti. Si prevede, cioè, che la Federal Reserve proceda più spedita con la stretta monetaria. Questo porterebbe a un apprezzamento del dollaro contro le altre divise ed essendo il greggio scambiato sui mercati proprio nella valuta americana, si sconta un contraccolpo sulla domanda. A dire il vero, i segnali in arrivo dai mercati non sembrano andare in questa direzione. Il differenziale di rendimento tra i titoli di stato USA con cedola fissa e quelli legati all’inflazione, entrambi con scadenza quinquennale, monitorato come indicatore delle aspettative d’inflazione, segna una contrazione dal 2% all’1,83% in 3 settimane, come se gli investitori si aspettassero non un’accelerazione, bensì una decelerazione della crescita dei prezzi presso la prima economia mondiale. E il dollaro, per quanto in timida risalita dai minimi da 39 mesi, ristagna ancora intorno a tali livelli.

E dire che a tenere più bassa la produzione globale vi è il Venezuela, che a gennaio ha estratto appena 1,6 milioni di barili al giorno, il livello minimo da 30 anni.

Caracas è alle prese con forti problemi economici e la politica di disinvestimenti degli ultimi anni della compagnia petrolifera statale PDVSA, utilizzata come un bancomat dal governo, sta riducendo la produzione da ogni pozzo e il numero stesso dei siti estrattivi.

Si allenta la pressione su Draghi

Un petrolio più basso rende più facile la vita a Mario Draghi. Il governatore della BCE subisce la pressione crescente dei cosiddetti “falchi” monetari, che guidati dalla Bundesbank chiedono un’uscita dagli stimoli e il successivo rialzo dei tassi contro il rischio di una reflazione più veloce e potente delle attese. Se finora a preoccupare Draghi era stato l’apprezzamento del cambio euro-dollaro, asceso fino a oltre 1,25, che riducendo i prezzi dei beni importati, finirebbe per allontanare ancora una volta l’inflazione nell’Eurozona dal target di poco inferiore al 2%, adesso proprio il ripiegamento dell’oro nero starebbe rafforzando tale suo convincimento o quanto meno attenua le critiche di chi intravede rischi inflazionistici imminenti. Insomma, Draghi guadagna ancora settimane e mesi preziosi per andare avanti con la sua strategia accomodante, con la prospettiva non inverosimile che il “quantitative easing”, il programma di acquisto degli assets per 30 miliardi al mese dal gennaio di quest’anno, possa concludersi a dicembre, riducendosi progressivamente fino ad annullarsi dopo il settembre prossimo.

Non sono attese dagli analisti variazioni all’inflazione stimata nel breve termine, ma è evidente che molto per i funzionari d Francoforte dipenderà dalla direzione che assumerà il tasso di cambio da qui ai prossimi mesi e dal livello delle quotazioni petrolifere. Ed entrambi puntano a un “raffreddamento” dell’inflazione.

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