Le quotazioni del petrolio sono scese nelle scorse ore fino a un minimo di 71,65 dollari per il Brent, perdendo più di 14 dollari, oltre il 16%, in appena un mese, salvo recuperare al momento risalendo a 73 dollari. Era il 3 ottobre scorso, quando il greggio quotava sui mercati poco meno di 86 dollari. Adesso, ha ripiegato ai livelli più bassi dalla metà di agosto. Paradossalmente, ciò sta avvenendo proprio in coincidenza con il ripristino delle sanzioni USA contro l’Iran. Non si tratta del classico esempio di “buy rumors, sell news”, bensì della reazione dei mercati alle modalità soft con cui l’amministrazione Trump ha reintrodotto l’embargo contro le esportazioni di Teheran, esentando 8 economie: Italia, Grecia, Turchia, Giappone, Cina, India, Corea del Sud e Taiwan.

Secondo gli analisti, ciò consentirà all’Iran di continuare ad esportare tra 1,2 e 1,7 milioni di barili al giorno, sopra il milione attuale registrato dalla Repubblica Islamica, che era arrivata a vendere all’estero 3 milioni di barili al giorno.

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Insomma, le eccezioni consentite dall’America si sono rivelate più ampie di quanto lo stesso mercato avesse scontato. Inoltre, a fronte del ridotto rischio di carenza di petrolio nel mondo, le estrazioni di USA, Russia e Arabia Saudita hanno nel complesso oltrepassato i 33 milioni di barili al giorno, un terzo del totale, trainate dal boom della produzione americana, che alla fine di ottobre è arrivata all’apice di 11,2 milioni, salendo di 1,7 milioni su base annua (+18%). E così, in poche settimane si è passati dal parlare di un ritorno dell’oro nero a 100 dollari all’interrogarsi su fin dove si spingeranno i cali.

Petrolio giù, l’inflazione?

E se il trend crescente delle quotazioni era stato accompagnato nei mesi passati da un contestuale rafforzamento del dollaro, questo si è indebolito mediamente dell’1,5% contro le altre valute in questa prima settimana di novembre.

Anche l’esito delle elezioni di medio termine negli USA induce a pensare che il cambio americano tenderà ad arrestare la propria corsa. Questo scenario ci fa ipotizzare un probabile raffreddamento dei tassi d’inflazione nei mesi prossimi anche fuori dagli USA. In America, sta già accadendo: dall’apice del 2,9% annuale raggiunto a giugno e luglio, la crescita dei prezzi si è abbassata al 2,3% a settembre. Nell’Eurozona, invece, ha accelerato dall’1,3% di aprile al 2,2% di ottobre, tra effetto cambio e quotazioni petrolifere in rialzo.

Un’inflazione calante servirebbe come ossigeno ai governi delle principali economie avanzate, perché costringerebbe le rispettive banche centrali a rivedere i piani monetari, rallentando l’uscita da un decennio di accomodamento senza precedenti, mentre la Federal Reserve metterebbe in pausa la stretta iniziata nell’ormai lontano dicembre di 3 anni fa e che allo stato attuale si concluderebbe solo nel 2020. Poiché la Fed segna i tempi e la direzione per tutte le altre principali banche centrali, un suo eventuale passo indietro sui prossimi rialzi dei tassi verrebbe percepito sui mercati in senso più espansivo anche altrove, con il comparto obbligazionario a beneficiare di un aumento dei prezzi e una riduzione dei rendimenti. I conti pubblici fiaterebbero, confidando in un periodo più lungo di bassi tassi. Il presidente americano Donald Trump lo pretende esplicitamente, i suoi interlocutori europei lo sperano a bassa voce. Ma fino a quando il petrolio non invia segnali decisi di ripiegamento, difficile che i governatori centrali li accontentino. Quel -16% in un mese, tuttavia, fa ben sperare. Se le quotazioni si stabilizzassero intorno o poco sopra i 70 dollari tra offerta crescente e domanda meno vigorosa delle attese, l’inflazione ne risentirebbe in maniera decisa sin dalla primavera prossima e gli spazi di manovra per gli istituti aumenterebbero, così anche quelli fiscali a disposizione degli stati.

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