I risultati ufficiali devono ancora essere proclamati, ma Pedro Castillo mantiene lo strettissimo vantaggio sulla rivale Keiko Fujimori, quando mancano poche schede da scrutinare delle elezioni presidenziali del 6 giugno in Perù. Con il 50,15% ottenuto, quasi certamente sarà il candidato comunista ad arrivare alla presidenza. Malgrado la spettacolare rimonta, la sfidante della destra conservatrice non dovrebbe farcela e a ben poco servirà gridare ai brogli.

E’ un Perù estremamente diviso e polarizzato quello che esce dalle urne. Non solo per il risultato complessivo, ma anche per come è stato ottenuto.

Nelle Ande, l’85% dei voti è andato a Castillo, mentre a Lima e nelle principali aree urbane i consensi per Fujimori sono arrivati all’88%. E’ stato uno scontro tra città relativamente benestanti e aree rurali povere.

I due candidati sono stati estremamente impopolari sin dall’inizio. Approdati al ballottaggio per effetto del frazionamento dei voti tra una miriade di candidati incolori, hanno consolidato i rispettivi campi facendo appello alla paura per l’avversario. Castillo ha 51 anni ed è un maestro elementare. Sconosciuto fino a poche settimane fa, è stato cooptato da Vladimir Cerron per correre alla presidenza al suo posto per la formazione di estrema sinistra Perù Libero, essendo sotto processo per corruzione.

Le idee comuniste di Castillo

Castillo è marxista-leninista e lo ha dimostrato durante la campagna elettorale, pur ammorbidendo i toni nel corso del ballottaggio. Tra le sue promesse, vi sono la nazionalizzazione dell’industria, specie quella mineraria e persino dei media, l’obbligo per le multinazionali di investire nel Perù almeno il 70% degli utili, una riforma della Costituzione in senso più inclusivo e spendere per sanità e scuola almeno il 20% del PIL. Quest’ultima cifra equivarrebbe a più dell’intero gettito fiscale dello stato.

Come dicevamo, Castillo ha cercato di rassicurare gli elettori dopo il primo turno. Ha chiarito, ad esempio, che non intende nazionalizzare o espropriare imprese o terreni, ma semplicemente aumentare le tasse a carico dei produttori.

Ma Fujimori sta proseguendo la sua battaglia anche dopo le elezioni e nel “nome della libertà contro il comunismo”. Figlia di Alberto, presidente del Perù negli anni Novanta e artefice del miracolo economico grazie alle sue politiche neoliberiste, è accusata di corruzione e rischia lunghissimi anni di carcere. Lo stesso padre è in galera per lo stesso reato e per violazione dei diritti umani.

Fujimori fa appello ai peruviani, affinché non accettino di consegnare il potere nelle mani di un uomo che si ispirerebbe al regime cubano dei fratelli Castro e a quello “chavista” del Venezuela. E nell’immaginario collettivo, un presidente comunista rievoca pessimi ricordi, come gli espropri negli anni Sessanta e l’iperinflazione tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta. In entrambi i casi, al potere vi era un presidente di estrema sinistra. Ed ecco che dal risultato a sorpresa del primo turno, il nuovo sol peruviano perde l’8% contro il dollaro, mentre il bond decennale è salito dal 4,75% al 5,29%. Il bond a 100 anni in dollari, emesso solamente nell’autunno scorso con grande successo, perde quest’anno il 13%.

Fuga dei capitali dal Perù

La gente è spaventata e sta cercando di trovare le soluzioni per sfuggire alle possibili rappresaglie di Castillo. Moltissimi risparmiatori avrebbero spostato i conti bancari all’estero, mentre altri hanno diviso i beni ai figli per evitare di sottoporre i grossi patrimoni a possibili stangate. C’è panico nel Perù e a raccontarlo sono gli stessi cittadini alla stampa straniera, specie nelle città, dove quasi nessuno ha votato per Castillo. Nelle aree rurali, il clima è ben diverso. Espressioni come espropri, tassazione dei capitali, redistribuzione non fanno paura per il semplice fatto che qui le persone hanno poco o nulla da perdere.

Tuttavia, Castillo ha nominato come suo consigliere economico Pedro Francke, già economista alla Banca Mondiale e fautore di una politica fiscale prudente.

Solo se le sue posizioni prenderanno il posto di quelle estreme del futuro presidente, il Perù riuscirebbe a mantenere lo status di emittente “investment grade”. I suoi rating sono oggi migliori di quelli italiani. Ma il caso argentino segnala quanto spesso nomi graditi alle istituzioni finanziarie internazionali possano essere un semplice specchietto per le allodole. Il ministro dell’Economia, Martin Guzman, a Buenos Aires conta meno di nulla. Il suo nome, legato al Premio Nobel, Joseph Stiglitz, aveva acceso la speranza all’estero tra quanti credettero che il ritorno dei peronisti al potere sarebbe stato meno ostile al mercato del passato.

Il Venezuela fa paura. Alla fine degli anni Novanta, il comandante Hugo Chavez aveva inizialmente tenuto toni concilianti e rassicuranti sulle sue posizioni geopolitiche ed economiche. Ben presto, la sua presidenza si rivelò per quello che era e sarebbe stata: comunista. Molti terreni furono espropriati, i media ricondotti sotto il controllo del governo, l’industria privata quasi annichilita da controlli e imposizioni incompatibili con il libero mercato e la spesa pubblica esplodeva tra sussidi ed elargizioni ai militari per consolidare il consenso. Il petrolio fu sfruttato per distribuire prebende pubbliche e oggi lo stato non riesce ad estrarlo, né più a guadagnarci. Nel frattempo, i bolivares valgono meno della carta straccia dopo anni di iperinflazione e svalutazione incessante. E a Lima sono in molti a pensare che nella mente di Castillo vi sia questo modello “chavista”.

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