Per la prima volta dal 2007, il debito pubblico italiano quest’anno scenderà in rapporto al PIL, attestandosi al 153,5%. Queste sono le cifre attese dal governo Draghi e che probabilmente saranno più che centrate, grazie alla crescita economica più elevata delle previsioni ufficiali. Resta il fatto che nell’ultimo decennio, lo stock è cresciuto di quasi il 35% in rapporto al PIL e di circa 830 miliardi di euro in valore assoluto.

Basterebbero queste cifre per farci dire che sul debito pubblico siamo messi molto peggio oggi rispetto a 10 anni fa, eppure non si trova in giro economista, politico o giornalista che lo sostenga apertamente.

Anzi, la vulgata comune vuole che nel 2011 l’allora governo Berlusconi rischiò di mandarci in default, mentre oggi con un deficit a doppia cifra e un debito alle stelle saremmo in ottime mani. D’altronde, è mutato anche il lessico degli organi di informazione. Il debito pubblico era brutto e cattivo tout court fino allo scorso anno, mentre adesso si distingue tra debito buono e debito cattivo, prendendo spunto da un discorso pronunciato dall’attuale premier Mario Draghi nel 2020.

Eppure è vero che le condizioni dei mercati nel 2011 stessero di gran lunga peggio di quanto non lo siano oggi. Silvio Berlusconi rimise il mandato dopo che a inizio novembre di quell’anno il Tesoro piazzò BoT a 6 mesi al rendimento record del 6,4%. Oggi, il BTp a 50 anni offre poco più del 2,20%. Lo spread era esploso fino al livello record intraday di 576 punti base, mentre adesso si aggira attorno ai 120. E dire che il deficit fosse sotto il 4%, mentre nel 2021 dovremmo a mala pena riuscire a stare sotto il 10%.

Debito pubblico non più un problema grazie alla BCE

Perché allora il debito pubblico fece così tanta paura? Per il semplice motivo che non vi era alcuna sintonia tra politica fiscale e politica monetaria.

Nell’estate del 2011, la BCE era tornata ad alzare i tassi un po’ frettolosamente e quasi ignorava gli attacchi speculativi scatenatisi contro i bond sovrani di Sud Europa e Irlanda dopo il crac di quest’ultima, Grecia e Portogallo. Anziché rassicurare i mercati, l’istituto inviò una lettera all’Italia con la quale chiedeva l’implementazione di una cinquantina di riforme. Ne scaturì l’immagine di un Bel Paese lasciato alla deriva.

Non fu un caso che lo spread iniziò a scendere stabilmente solo dal famoso pronunciamento del “whatever it takes” a fine luglio 2012 da parte di Draghi. Fino ad allora, pur tra taglio dei tassi, aste Ltro per oltre 1.000 miliardi di euro e governo tecnico a Roma guidato dal Prof Mario Monti, la crisi del debito pubblico italiano era rimasta alle stelle. Dunque, il fattore decisivo non furono le presunte politiche di risanamento fiscale varate dai governi italiani che si sono succeduti nell’ultimo decennio, bensì proprio la BCE. E guarda caso lo spread è riesploso alle stelle solamente in altre due occasioni: nel 2018, quando il governo “giallo-verde” tuonò contro la Commissione europea, facendo temere l’uscita dell’Italia dall’euro; nel marzo 2020, quando un’incauta Christine Lagarde dichiarò che “non siamo qui a restringere gli spread”.

E oggi c’è un’altra novità positiva per i mercati: le emissioni comuni (Eurobond) di debito pubblico nell’Unione Europea per finanziare la ripresa dell’economia. Si tratta di un piano eccezionale, noto come Next Generation EU, ma che ha avuto l’effetto di far percepire agli investitori quella solidarietà tra governi del tutto assente nel 2011, quando al contrario dell’Italia si rideva pubblicamente nei consessi internazionali e si gridava alla malafede della Grecia nella pubblicazione dei dati macro. Non è cambiata solo la BCE – e già sarebbe quasi bastato – bensì la politica di Bruxelles nei riguardi delle questioni fiscali, affrontate in un’ottica molto meno ragionieristica e sbrigativa di 10 anni fa.

[email protected]