Christine Lagarde si è dimessa dalla carica di direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, a pochi giorni di distanza dall’ufficializzazione della sua nomina a prossimo governatore della BCE, succedendo all’italiano Mario Draghi. Proprio il futuro di quest’ultimo continua a rimanere avvolto nel mistero. Quale alta posizione ricoprirà dopo la scadenza del mandato, prevista per fine ottobre? Si prenderà un anno sabbatico o si metterà subito al lavoro per un’altra sfida nel panorama internazionale? Poiché l’essenziale è invisibile agli occhi, scomodando il “Piccolo Principe”, nei prossimi mesi potrebbe semplicemente esservi uno “switch” di poltrone tra Draghi e Lagarde: la francese verrà a Francoforte e l’italiano si trasferirà a Washington.

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La nomina del direttore generale dell’FMI spetta per convenzione a un europeo, così come quella del capo della Banca Mondiale a un americano. Il patto non scritto tra USA ed Europa continua a reggere, tanto che il presidente Donald Trump ha di recente nominato l’americano David Malpass senza problemi. A questo punto, la Casa Bianca non farebbe opposizione alla prosecuzione della consuetudine ormai collaudata in oltre sette decenni di storia. Ma come verrebbe scelto il successore della Lagarde?

I candidati informalmente in corsa

L’FMI ha un board esecutivo composto da 24 membri, ciascuno in rappresentanza di uno o più stati membri e con a disposizione un certo numero di voti sulla base del peso che gli stati rappresentanti posseggono nell’istituto. Il più influente, ça va sans dire, sono gli USA con il 16,52%, seguiti dal Giappone con il 6,15%, la Cina con il 6,09%, mentre la Germania ha il 5,32%, la Francia e il Regno Unito il 4,03% ciascuno. Il rappresentante italiano, nella persona attualmente di Domenico Fanizza, dispone del 4,13% dei voti, ma in nome anche di Grecia, Albania, Malta, Portogallo e San Marino.

Il nome del prossimo direttore generale dovrà uscire dal cilindro di questi 24 componenti del board. Inutile dire che l’America, pur fuori dai giochi, detiene un potere di veto sul piano politico, oltre che numerico. Quali sono i candidati in corsa? Informalmente, la lista sarebbe già lunga. Troviamo il francese Benoit Coeuré, attuale consigliere esecutivo della BCE, l’ex ministro tedesco Wolfgang Schaeuble, il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, persino l’ex ministro delle Finanze greco, Euklid Tsakalotos, nonché l’ex ministro delle Finanze olandese e già presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. Questi sono solo i nomi principali.

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Il vincitore non sarà estratto dall’urna nel corso di una riunione del board, ma nei fatti dal vertice del G7 in Francia di questa estate. In quell’occasione, i grandi della Terra decideranno su quale nome convergere. Ora, qui si mescolano ragioni geopolitiche e altre più squisitamente economiche e personali. Dopo avere ottenuto la presidenza della Commissione, difficile che la Germania s’impossessi anche dell’FMI. E la stessa Francia ha già la BCE per la seconda volta dal 2003 e ha espresso gli ultimi due dg dell’istituto. Sarebbe fin troppo. Inoltre, Trump non ama né francesi e né tedeschi, sia per la loro appartenenza al blocco geopolitico ostile alla sua dottrina dell’“America First”, sia in quanto sostenitori di una linea di politica economica improntata all’austerità fiscale da un lato e a una maggiore ortodossia monetaria dall’altro. Ed egli propugna tutt’altro in questi anni.

Nemmeno Carney gli andrebbe a genio. Il canadese è accusato dai sostenitori del “Leave” di avere parteggiato per il “Remain”, cioè la permanenza del Regno Unito nella UE, con una comunicazione scorretta e tesa a terrorizzare i sudditi di Sua Maestà sulle conseguenze di una Brexit.

Il suo nome verrebbe difficilmente sostenuto da un Boris Johnson, nel caso riuscisse a giorni a diventare il nuovo premier britannico al posto di Theresa May. Quanto alla candidatura greca, è al limite del ridicolo. Dunque, Draghi gode di ottime chances. Egli è stimato sinceramente dalle principali cancellerie europee, tedesca inclusa, nonché da Trump, che ne ha lodato pubblicamente il suo profilo di governatore dalla politica monetaria ultra-espansiva.

Se l’America e il Giappone, oltre all’Italia, convergessero sul suo nome, ci sarebbe già un blocco di oltre il 26% dei voti a favore, un ottimo punto di partenza per scartare candidature minori, tra cui quella olandese, considerata una “proxy” della Germania. La differenza potrebbero farla i paesi emergenti, che pur esclusi dalle stanze dei bottoni, faranno certamente sentire la loro voce, reclamando un maggiore coinvolgimento in fase decisionale. E a partire dalla Cina, nessuno di loro vedrebbe di buon occhio un esponente tedesco o di istanze simili, mentre l’italiano rassicurerebbe per la sua caratura di uomo equilibrato. Insomma, Draghi può farcela davvero.

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