Il lunedì è stata una giornata piuttosto pesante per i mercati finanziari. Piazza Affari ha chiuso a -11,2%, ma la stessa Wall Street ha visto crollare il suo principale indice – l’S&P 500 – del 7,60%. I crolli sono stati trainati dal collasso delle quotazioni petrolifere (fino a -30%), a causa del mancato accordo tra OPEC e Russia sul taglio alla produzione. Il resto lo ha fatto il decreto del governo italiano per chiudere Lombardia e 14 province del nord, esteso il giorno dopo a tutta Italia.

Il mondo ha paura delle conseguenze del Coronavirus per l’economia e sconta utili più bassi per le società quotate. E i listini hanno visto protagonisti in negativo le banche, con l’indice Ftse All Share Banks ad essere crollato lunedì del 12,25%, più della già elevatissima media dell’Ftse Mib e sulla quale avevano inciso i titoli del comparto energetico.

Ma non solo le banche italiane sono andate malissimo. L’indice bancario europeo ha segnato uno sconvolgente -17,85%, mentre a New York i risultati di fine seduta davano JP Morgan a -13,5%, Bank of America a -14,70%, Citigroup a -16,2%, etc. Perché gli istituti di credito sono stati oggetto di un “sell-off” così imponente? Esistono diverse risposte e tra di loro non alternative. Nello specifico, i titoli italiani hanno risentito dell’impennata dello spread. I rendimenti dei BTp sono letteralmente schizzati e questa per le banche che li detengono in portafoglio non è una bella notizia, perché se li volessero rivendere, subirebbero perdite per via dei cali dei prezzi.

E le banche italiane di BTp ne posseggono per circa 400 miliardi, seppure in larga parte con l’obiettivo di tenerli fino alla scadenza, per cui teoricamente solo una parte dei bond infliggerebbe perdite nel caso di ripiegamento delle quotazioni. Ad ogni modo, quando sale il rischio sovrano italiano, le nostre banche ne risultano colpite, anche perché nel caso malaugurato di ristrutturazione del debito, si ritroverebbero tra i creditori danneggiati.

E il mercato sta scontando proprio un aumento del rischio, come segnala il rincaro dei “cds” a 5 anni a 164 punti base, dai 98 di un mese fa.

Il crollo dello spread mette le ali alle banche

Petrolio e tassi pesano sulle banche

Ma non è solo questo, anche perché altrimenti non si spiegherebbero i tracolli nel resto del mondo. Il fatto è che le banche prestano denaro anche alle compagnie petrolifere, che con quotazioni scese a livelli così bassi, in molti casi non sarebbero più nelle condizioni di onorare i prestiti. Il problema è avvertito particolarmente negli USA, dove molte compagnie petrolifere minori e poco efficienti riescono a maturare utili a quotazioni ben più elevate di quelle attuali e vengono classificate dalle agenzie di rating come emittenti “junk”, cioè ad alto rischio. Ad esempio, Bank of America aveva a bilancio a fine 2019 prestiti a società petrolifere per 16,4 miliardi di dollari, JPM Morgan per 16,6 miliardi e Citigroup per 22,5 miliardi. Se i prezzi restassero questi, si stima che dovrebbero aumentare le coperture rispettivamente di 591, 880 e 787 milioni.

Infine, c’è la questione tassi. Tra Coronavirus e petrolio a basso costo, cresce la pressione sulle banche centrali, affinché allentino ulteriormente la politica monetaria. La Federal Reserve dovrebbe abbassare ancora il costo del denaro negli USA al prossimo board del 17-18 marzo, così come la BCE dovrebbe adottare entro pochi mesi nuove misure a sostegno della stabilità dei prezzi. Ma l’effetto di questi provvedimenti, come già si rivela ben visibile sul mercato americano, è quello di comprimere i tassi d’interesse, restringendo i margini a disposizione delle banche per maturare utili. Prestare denaro diventerà sempre meno redditizio, perché gli spread tra tassi attivi e passivi si stanno già riducendo negli stessi USA, dove sinora erano rimasti più elevati per via di una politica monetaria della Fed relativamente meno espansiva.

E il mercato sconta proprio queste criticità.

Banche italiane aiutate dalla BCE, con i nuovi tassi negativi mezzo miliardo in più

[email protected]