Quello da poco insediatosi a Roma è il primo governo in Italia dalla spiccata matrice anti-austerità ed euro-scettica. Il premier Giuseppe Conte ha ricevuto mandato da Movimento 5 Stelle e Lega di “battere i pugni sul tavolo a Bruxelles” per strappare concessioni alla Commissione europea con riguardo alla politica fiscale. E’ unanime la convinzione nel panorama politico nazionale e locale che l’Italia debba godere di maggiori margini di manovra per poter spendere di più e fare ripartire la crescita. Una convinzione trasversale, frutto della credenza per cui crescita e spesa pubblica viaggerebbero in tandem, quasi come fossero un binomio inscindibile.

Fosse così, saremmo in boom economico da una vita; invece, nonostante nell’ultimo decennio abbiamo speso qualcosa come circa il 50% del pil, abbiamo registrato il secondo peggiore trend di crescita dopo la Grecia. A conti fatti, abbiamo chiuso il 2017 con un pil reale inferiore a quello del 2008 di circa il 5,6%.

Debito pubblico, austerità vera arriva con l’aumento dei tassi

Ma il racconto che si vende come il pane vuole che Roma abbia le mani legate da Bruxelles e che l’austerità negli ultimi anni abbia soffocato la nostra economia. Sarà vero? I dati ci indicano tutta un’altra storia, anche se non esiste politico di qualsivoglia schieramento che non si guardi bene dal contrastare lo “story telling” prevalente. Partiamo da un primo dato grezzo: l’Italia ha speso nel 2017 quasi una sessantina di miliardi in più del 2008, anno in cui esplose la crisi finanziaria ed economica mondiale. Tuttavia, queste cifre nulla ci dicono su quanto abbia inciso la crescita della spesa per interessi, che non dipende dallo stato, bensì dalle condizioni del mercato, né in sé genera ricchezza effettiva, se non per le famiglie che detengono bond.

Andando a scomputare la spesa per interessi da quella totale, otteniamo la spesa primaria, che si attestava intorno ai 694 miliardi nel 2008, salendo fino ai 773 miliardi dello scorso anno.

In un decennio, quindi, risulterebbe cresciuta di oltre l’11%. Tenendo presente l’inflazione cumulata nel periodo, notiamo come la crescita reale della spesa pubblica sia stata sostanzialmente nulla. Dunque, a Roma non hanno tagliato la spesa pubblica per beni e servizi nel senso letterale del termine, ma sarebbero riusciti nel miracolo – vista la storia del nostro Paese – di tenerla agganciata all’inflazione. Ne sono esempio gli stipendi pubblici, che nell’arco di tale periodo sono rimasti quasi inalterati a poco sopra i 160 miliardi di euro, valendo un po’ più del 10% del pil. Effetto del blocco dei rinnovi contrattuali e del turn over. E, però, se facessimo un confronto con la Germania, ci accorgeremmo che l’Italia continua ad avere più dipendenti pubblici – oltre 3 milioni contro 2,3 milioni, quando la nostra popolazione ammonta a oltre un quarto in meno di quella tedesca – e una maggiore spesa in rapporto al pil: 10,4% contro 8,2% nel 2015.

Stipendi pubblici pesano di più che in Germania

Tra il 2000 e il 2008, mentre la Germania abbassava tale rapporto dall’8,1% al 6,9%, l’Italia lo elevava dal 10,4% al 10,9%. In sostanza, prima della crisi, quando il famoso “dividendo” dell’euro ci avrebbe consentito di ridurre la spesa pubblica, grazie ai minori interessi pagati sul debito in scadenza, abbiamo puntato sui soliti stipendifici pubblici per distribuire tali risparmi, con i risultati nefasti che conosciamo. Lo spread tra costo dell’impiego pubblico italiano e quello tedesco si è allargato così al 4% del pil, qualcosa che nel 2008 valeva sui 65 miliardi. In pratica, se avessimo speso quanto la Germania in stipendi pubblici, avremmo risparmiato 65 miliardi, ovvero avremmo potuto anche chiudere il bilancio in attivo o, a parità di deficit, abbassare di 4 punti pieni la pressione fiscale, ad esempio, azzerando l’IRAP o implementando in toto la “flat tax” di cui si parla in queste settimane.

Spesa pubblica italiana senza freni, ma quale austerità!

Scelte politiche legittime, per quanto discutibili, hanno voluto che si facesse altro. Ora, il punto è semmai un altro: assodato che non abbiamo vissuto una vera austerità fiscale, come pure siamo indotti a credere per effetto del racconto prevalente su stampa e web, cosa dovremmo fare nei prossimi anni? Giustamente, i mercati sono preoccupati per la sostenibilità del debito pubblico. Se nell’arco di un decennio è passato dal 105% al 132% del pil in piena frenata della spesa pubblica reale e pur beneficiando dal 2015 di rendimenti sovrani mai così bassi prima, cosa accadrà con le richieste di aumento del deficit del governo Conte e in una fase rialzista dei tassi? Badate bene, qui non si tratta di populismo contro politica tradizionale, perché i confini tra i due sono stati molto più labili di quanto ci raccontiamo. Non è stato populista il governo Renzi nell’alzare la voce contro i commissari per strappare loro concessioni fiscali, utilizzate interamente per attuare politiche dei bonus in deficit dal sapore elettoralistico? E ancora prima, non era stato populista lo stesso governo Berlusconi, che reclamava anch’esso più flessibilità per crescere?

Con il governo Conte, tutt’al più, viene compiuto un passo in avanti sul piano della ideologizzazione della lotta all’austerità fiscale, quand’anche non l’abbiamo attuata mai, almeno non nei termini che si vorrebbe far credere. Sarebbe austerità se iniziassimo a tagliare davvero la montagna della spesa pubblica in valore assoluto, operazione politicamente non sostenibile in Italia, di certo non più dopo anni di attacchi al vetriolo contro i vincoli di bilancio imposti dall’Europa. Attenzione, questo non significa che non vi siano stati singoli comparti della Pubblica Amministrazione ad avere sofferto tagli reali. La sanità è uno di questi. La sua spesa si è ridotta sia in rapporto al pil, sia persino in valore assoluto (lievemente nel 2013 rispetto al 2012).

Lo stesso potrebbero dire i comuni, che si sono visti tagliare i trasferimenti statali finanche del 40%, rendendo quasi un atto di eroismo fare il sindaco di una qualsiasi città. Restando ai grandi numeri, però, l’austerità sembra essere stata una “fake news” molto popolare, facile da credere in un’economia, dove milioni di famiglie vivono di stipendi pubblici, specie al sud, e il mito del posto fisso statale, anziché tramontare, con la crisi ha acquisito persino vigore.

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