Il Tar del Lazio ha accolto ieri il ricorso di Vivendi contro la delibera dell’AGCOM (Autorità Garante per le Comunicazioni) del 18 aprile 2017, con cui vennero “congelate” le azioni del colosso dei media francese in Mediaset per la quota sopra il 9,9%. Una vittoria importantissima per la creatura di casa Bolloré e una sconfitta potenzialmente pesante per la famiglia Berlusconi, reduce da mesi molto negativi in tutti i tribunali e di recente anche sul fronte della politica europea. I giudici di Madrid e Amsterdam in estate hanno affossato il progetto di Mediaset per la creazione di una media company europea (MFE), accogliendo l’opposizione sempre di Vivendi.

E nelle scorse settimane, la Commissione ha bocciato la cosiddetta norma “salva-Mediaset”, con cui il governo puntava a impedire temporaneamente ai francesi di scalare Cologno Monzese.

Ripetiamo in estrema sintesi la storia alla base della querelle finanziario-giudiziaria tra Berlusconi e Bolloré, anche perché non è finita e avrà ripercussioni sui prossimi accadimenti. Era il 2016, quando Vivendi sigla con Mediaset un accordo per acquisire Premium, la pay tv del Biscione. Dopo alcuni mesi, a seguito di una due diligence, si rimangia la parola. Il titolo Mediaset crolla in borsa e i francesi ne approfittano per scalare la società, arrivando al 28,8% delle azioni, il 29,9% del capitale con diritto di voto, il massimo consentito dalla famosa legge Draghi per non lanciare un’OPA obbligatoria sul capitale rimanente. A quel punto, interviene l’AGCOM, che in virtù della detenzione del 23,9% di Vivendi in TIM, intima il trasferimento della quota eccedente il 9,9% in una fiduciaria, che sarà la Simon. Nel frattempo, la famiglia Berlusconi porta gli ex amici Bolloré in tribunale, chiedendo un maxi-risarcimento di 3 miliardi di euro per i danni patiti dalla controllata a seguito del mancato rispetto dell’accordo su Premium. Nei giorni scorsi, i vertici di Vivendi sono stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Milano con l’accusa di manipolazione del mercato.

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Gli scenari possibili per gli azionisti Mediaset

La sentenza sul risarcimento dovrebbe arrivare nella prossima primavera. Il massimo che i Berlusconi otterrebbero sarebbero proprio quei 3 miliardi richiesti, praticamente più dei 2,5 miliardi di quanto al momento capitalizzi Mediaset a Piazza Affari. Alla luce anche dell’ultima sentenza del Tar, però, questo scenario si affievolisce, mentre prende corpo l’ipotesi di un accordo transattivo tra le parti. Potrà essere grosso modo di due tipi: puramente finanziario o industriale. Non possiamo escludere un mix tra le due soluzioni. Ovvero, Mediaset abbassa le sue pretese e magari si accontenta di una somma molto più bassa. Se anche solo fosse un miliardo, male non sarebbe. Chissà che l’indennizzo non venga corrisposto almeno parzialmente attraverso la cessione di quote Vivendi in Mediaset, per cui la società si ritroverebbe a possedere una maggiore quantità di azioni proprie, monetizzando dalla loro rivendita successiva.

Altra ipotesi sarebbe di un accordo che passi per TIM. Vivendi non controlla più l’ex monopolista, a seguito del blitz di CDP ed Elliott Management nel 2018. Tuttavia, vi esercita un’influenza rilevante. E TIM è al centro di un piano strategico per la creazione di una rete unica con Open Fiber, società ad oggi detenuta pariteticamente da CDP ed Enel. Mediaset coltiva sogni di integrazione con TIM da decenni, ma la presenza del suo fondatore in politica ne ha reso sinora impossibile la realizzazione. E se ci si accordasse per uno scambio azionario o per l’ingresso diretto del Biscione nella newco a capo della rete, successivamente allo scorporo?

Nell’uno e nell’altro scenario, gli azionisti di Mediaset gongolerebbero: o si ritroveranno con liquidità preziosa nelle casse della società o con assets in altre società del comparto telecomunicazioni.

Esiste un terzo scenario, anche in questo caso positivo per i loro interessi: nessun accordo tra Vivendi e Mediaset, nessun indennizzo deciso dal giudice a favore della seconda e i francesi che tornerebbero a scalare la società, dovendo necessariamente lanciare un’offerta sulle azioni rimanenti e a prezzi superiori a quelli di borsa. Per Fininvest, la holding di casa Berlusconi, che da sola detiene il 44,18%, sarebbe un incubo. Ma spesso ciò che conviene all’azionista di riferimento non conviene alle minoranze e viceversa.

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