Ieri, il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha alzato i tassi d’interesse di un altro mezzo punto percentuale, portandoli all’1%. La mossa si è rivelata necessaria per combattere un’inflazione, che negli USA a marzo è salita all’8,5%, mai così alta dal 1981. Il giorno prima, l’investitore Paul Tudor aveva dichiarato di non riuscire a ricordare un momento peggiore per i mercati finanziari. “Non vorresti possedere né azioni, né obbligazioni”. Lo spettro di una crisi mondiale è più forte che mai, seppure ad oggi esorcizzato dalle dichiarazioni ufficiali rassicuranti dei governi e delle banche centrali.

Ma il momento che stiamo vivendo presenta caratteri di eccezionalità, che lo rendono molto pericoloso.

In genere, accade che la FED alzi i tassi quando l’economia americana è in ottima salute e corre il rischio di surriscaldarsi eccessivamente. Per restare a questo millennio, fu così tra il 2004 e il 2006 e tra fine 2015 e inizio 2019. La recessione del PIL USA avvenne rispettivamente nel 2008 e nel 2020, cioè conclusosi il ciclo monetario restrittivo. Nel secondo caso, poi, il tonfo del PIL fu provocato da un evento non economico e imprevedibile: la pandemia. Chissà se la recessione sarebbe arrivata, ed eventualmente quando, senza di essa!

Stretta sui tassi fuori tempo

Stavolta, sta accadendo un fatto inconsueto. Il PIL USA si è contratto nel primo trimestre dell’anno dell’1,4% rispetto al trimestre precedente, ancor prima che la FED avviasse la sua stretta sui tassi. Praticamente, Powell sta restringendo le condizioni monetarie mentre l’economia americana segnala già di essere affaticata. Non può fare altrimenti, sennò rischia di perdere il controllo della stabilità dei prezzi.

La BCE è messo persino peggio: adotta ancora tassi negativi e continua ad acquistare bond, cioè ad iniettare liquidità sui mercati, malgrado un’inflazione al 7,5% nell’Eurozona. Dovrebbe iniziare ad alzare i tassi entro l’anno, ma probabilmente ciò coinciderà con una fase di ripiegamento del PIL nell’area a causa del boom dei prezzi energetici.

La guerra noi ce l’abbiamo sul nostro continente e impatta rovinosamente sulla nostra economia. Quando si teme una crisi mondiale, quindi, non è per professione di pessimismo. Due le strade: o le banche centrali ignorano l’inflazione per non aggravare il quadro recessivo o combattono l’inflazione e ignorano le condizioni dell’economia.

Crisi mondiale per la seconda volta in due anni?

Nel primo caso, rischiano di far esplodere i prezzi al consumo e di colpire i redditi delle famiglie al punto da indebolire la domanda aggregata e la stessa produzione. In parte, sta avvenendo da qualche mese. Così facendo, la recessione arriverebbe lo stesso. Nel secondo caso, invece, chiudono gli occhi dinnanzi ai rischi per l’economia e almeno puntano sulla stabilità dei prezzi. Quest’ultimo scenario diverrebbe forse preponderante nel caso in cui le banche centrali prendessero atto che la recessione sia inevitabile. A quel punto, avrebbero ben poco da perdere. Anche per conservare la propria reputazione, intaccata da mesi di inerzia, combatterebbero con più convinzione l’inflazione per togliere di mezzo una forte concausa della crisi mondiale.

Sta di fatto che le banche centrali si trovano in una condizione inedita o certamente non vissuta negli ultimi decenni. In genere, sono accusate di intervenire tardi sui tassi e di provocare la recessione economica a causa della durezza della stretta varata a cui sono costrette per rimediare in corsa. Oggi, stanno intervenendo a crisi mondiale dietro l’angolo, avendo lasciato correre per mesi l’inflazione quasi compiaciute. Il rischio che la recessione diventi intensa, pur breve, si fa sempre più palpabile. Sarebbe la seconda in due anni, per l’Italia la quarta dal 2008. Gli esiti sociali appaiono destabilizzanti.

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