Adam Grant, uno dei 25 opinion leader sotto i 40 anni più influenti secondo Forbes, ha affermato che i colloqui di lavoro sono ingiusti per i candidati e dannosi per le aziende. Il problema, secondo il docente della Warthon School dell’Università della Pennsylvania, sarebbe da ricercare nella tipologia di domande inserite all’interno del colloquio dal responsabile delle risorse umane, le cosiddette domande comportamentali (in inglese behavioral questions).

L’errore di fondo nel porre le domande comportamentali durante un colloquio di lavoro

Innanzitutto, per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, chiariamo che le domande comportamentali altro non sono che quei quesiti del tipo “Mi racconti come si è comportato quando…”, vale a dire domande poste dai HR per venire a conoscenza di come il candidato abbia superato un conflitto durante una precedente esperienza lavorativa.

Dove sta il problema? Secondo Adam Grant, si tratterebbe di una tipologia di domanda che favorisce i narratori più bravi, le persone cioè che riescono a raccontare meglio rispetto a tante altre episodi di un certo rilievo. Ma migliori narratori – fa notare ancora una volta Grant – non significa necessariamente anche migliori candidati.

Quali sono le domande più corrette da porre in occasione di un colloquio di lavoro

Se le domande comportamentali non vanno bene, qual è allora la tipologia di quesiti che un HR dovrebbe porre agli aspiranti dipendenti dell’azienda per cui lavora? Grant non ha dubbi nell’affermare che anziché le behavioral questions sarebbero perfetti i test di giudizio situazionale (meglio conosciute con l’appellativo di situational judgement questions). Cosa cambia tra le prime e le seconde? Di fatto, questa tipologia di domande (“Cosa farebbe se si trovasse nella situazione in cui…”) attiva in automatico la capacità di problem solving richiesta da qualunque datore di lavoro e, allo stesso tempo, permette al responsabile delle risorse umane di porre domande più pertinenti all’azienda stessa e non al passato.

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