Anche coloro che non si occupano di mercati avranno sentito o letto del crollo della lira turca in questi giorni. La seduta di martedì è stata drammatica per la valuta emergente, arrivata a perdere il 14% contro il dollaro. Le perdite da inizio anno sono salite a più del 42%. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le dure parole pronunciate dal presidente Erdogan, il quale ha rivendicato le pressioni sulla banca centrale per ottenere il taglio dei tassi e ha parlato di “guerra per l’indipendenza economica” della Turchia.

Ma il crollo della lira turca va avanti da anni. Nell’ultimo decennio, segna un passivo dell’85% contro il dollaro. Per capire la ragione di questo trend così negativo, vi basti pensare che tra il 2012 e oggi i prezzi al consumo in Turchia sono esplosi del 185% contro appena il 20% negli USA. Naturale che il tasso di cambio si sia adeguato. La realtà è, però, un po’ più complessa, perché buona parte di questa inflazione galoppante deriva proprio dall’indebolimento della lira turca, che ha innalzato il costo dei beni importati. Insomma, il gatto che si morde la coda.

Le origini della crisi della lira turca

Il punto di svolta si ebbe nel 2016. Nel luglio di quell’anno, il fallito golpe contro il presidente Erdogan scatena le purghe contro gli oppositori politici e trattiene i capitali esteri alla finestra. Prima del putsch, la lira turca scambiava a meno di 3 contro il dollaro. Di lì in avanti, la caduta. Nel 2013, il 30% del debito sovrano turco era posseduto dagli investitori stranieri, adesso la percentuale rasenta lo zero. Quell’anno, il PIL pro-capite raggiunse il massimo storico di 12.500 dollari, mentre nel 2020 risultava sceso a 8.610 dollari.

Il presidente Erdogan ha avuto due indubbi meriti nel suo primo decennio al potere: sviluppò l’economia turca, triplicandone le dimensioni; combatté l’inflazione, scesa tra il 45% e il 50% dei primi anni Duemila fino a un minimo del 6-7% toccato sotto il suo governo.

Ma è riuscito a disfare i suoi successi con una geopolitica aggressiva da un lato e smantellando l’indipendenza della banca centrale dall’altro. Dall’estate del 2019, alla guida dell’istituto si sono succeduti quattro governatori. Tre sono stati licenziati per avere osato intralciare il cammino di Erdogan per ottenere tassi bassi. A suo dire, contrariamente alla teoria economica predominante, solo un costo del denaro contenuto ridurrebbe l’inflazione, incentivando gli investimenti e aumentando l’offerta di beni e servizi nel tempo.

Dietro a ragioni apparentemente di vedute economiche si celano perlopiù interessi clientelari. Buona parte dell’elettorato di Erdogan è costituito dagli imprenditori attivi nel settore edile, bisognosi di denaro da prendere a prestito facilmente e a basso costo. L’economia turca non è competitiva. Salvo gli ultimissimi mesi, si caratterizza per partite correnti cronicamente in forte passivo. Significa che importa dall’estero più beni, servizi e capitali di quanti ne esporti. In una siffatta situazione, solo un cambio debole può tenere le riserve valutarie a livelli adeguati. E queste sono scese in territorio negativo, se si scorporano i dati sulla valuta straniera detenuta grazie alle operazioni swap con le altre banche centrali. Nel 2018, solo una tempesta finanziaria con tanto di -45% accusato dalla lira turca convinse Erdogan ad acconsentire a un rialzo dei tassi. Ma pretese nei mesi successivi il loro taglio e licenziò il governatore per essere stato, a suo dire, poco svelto nell’abbassarli.

La reputazione perduta della banca centrale

Nel novembre scorso, l’apparente svolta: Naci Agbal, suo ex ministro economico, è chiamato a guidare la banca centrale. Alza i tassi e il cambio si rafforza fino al 10%. A marzo, viene fatto accomodare fuori senza complimenti e sostituito dall’attuale governatore Sahap Kavgioclu, più ben disposto a tagliare i tassi.

A ottobre, diversi membri del board sono esautorati da Erdogan per essersi mostrati dubbiosi sul taglio dei tassi, scesi dal 19% al 15% in un paio di mesi. L’istituto ha perso ogni credibilità circa la sua gestione monetaria. Aveva promesso tassi più alti dell’inflazione, mentre li ha tagliati ben sotto i livelli toccati da quest’ultima, al 19,89% a ottobre.

Per una banca centrale la reputazione è tutto. E ad Ankara è andata perduta. L’indipendenza monetaria è stata una grande conquista dei decenni passati. In apparenza, i governi hanno vita più dura per cercare di risolvere i problemi dell’economia, non potendo fare affidamento automatico alla leva monetaria per gestire il debito. Si pensi alle conseguenze del “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1981. Tuttavia, questa suddivisione dei compiti ha portato ovunque a stabilità dei prezzi e dei tassi di cambio, cioè anche a maggiori investimenti e crescita grazie alla capacità del mercato di fare previsioni più attendibili sul futuro.

Chi invoca l’assoggettamento delle banche centrali ai desiderata dei governi, guardi alla Turchia. Certo, sta accadendo anche negli USA e in Europa che nei fatti i governatori stiano sostenendo l’economia e le politiche fiscali ultra-espansive tenendo i tassi azzerati, acquistando bond e chiudendo un occhio sulla reflazione in corso. Tuttavia, la credibilità di istituzioni come Federal Reserve, BCE o Banca d’Inghilterra non è neppure paragonabile a quella di entità come la banca centrale turca. Ebbene, però, anche per loro esiste un limite invalicabile. Fintantoché l’inflazione rimane a livelli controllabili, nessuno sui mercati metterà in dubbio le azioni dei governatori centrali. Ecco perché questi non potranno tirare troppo la corda fingendo che i rialzi dei prezzi di questi mesi siano solamente “temporanei”.

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