Nel 2017, il costo per servire il debito pubblico italiano è stato di 65,6 miliardi di euro, il 3,8% del pil. Lo scorso anno, dovrebbe essersi attestato intorno agli stessi livelli. Lo sapremo con la pubblicazione dei dati ufficiali, attesa a marzo. Sembra incredibile, considerando che lo spread sia esploso dalla metà del maggio scorso, quando Movimento 5 Stelle e Lega hanno annunciato l’avvio delle trattative per la nascita del nuovo governo. Eppure, non solo la lievitazione dei rendimenti non sta impattando ancora negativamente sui conti pubblici, ma il costo del debito rispetto al pil verosimilmente sarebbe destinato a diminuire, non a salire.

Com’è possibile?

Debito pubblico italiano: gli interessi ci strangolano, ecco come la BCE dovrà abbassarli 

Secondo il Rendistato della Banca d’Italia, a dicembre il rendimento medio dei nostri titoli di stato sul mercato secondario è stato del 2,185%. Non parliamo di un costo effettivo del debito pubblico, bensì di quello preteso dagli investitori sui circa 2.000 miliardi di bond negoziabili sul mercato e che, tuttavia, si riflette sulle aste per le nuove emissioni. Considerando che parliamo di uno stock di quasi il 115% del pil, diremmo anche che, alle condizioni attuali, il costo medio del debito sul mercato sia pari a poco meno del 2,50% del pil, un valore nettamente inferiore al 3,8% pagato nel 2017 e all’incirca nel 2018.

Perché il costo del debito scende

Come si può spiegare tale discrepanza? Il costo del debito è quello che ogni anno il Tesoro sostiene su tutto lo stock cumulato. Esso varia di anno in anno sulla base del costo del debito giunto a scadenza, raffrontato con quello del debito di nuova emissione. Facciamo un esempio: se sto pagando un rendimento del 5% su un titolo emesso nel 2008 e questo scade oggi, per rimborsarlo dovrò emettere un altro titolo, che supponiamo essere di 10 anni e scontare un rendimento del 2,8%. Dunque, abbiamo rimpiazzato un debito più costoso con uno meno costoso.

La variazione per l’intero costo sarà positiva, seppure impercettibile, dato che lo stock complessivo ammonta, come dicevamo, sui 2.000 miliardi.

Ora, il costo del debito di nuova emissione ha raggiunto il punto più basso nel 2016 con lo 0,55%, salendo allo 0,68% nel 2017 e all’1,07% nel 2018. Questo significa che, nonostante lo spread alto, il Tesoro continua a rifinanziarsi a costi più bassi rispetto a quelli sostenuti sui bond che arrivano a scadenza e che sono stati emessi quando i rendimenti di mercato erano ben più alti. Se, per ipotesi, lo scorso anno avessimo pagato l’1,07% su tutti 2.300 miliardi di euro di debito pubblico, avremmo sostenuto un costo totale di nemmeno 25 miliardi, qualcosa come oltre 40 miliardi in meno del dato reale. In pratica, avremmo chiuso il bilancio in attivo, altro che “guerra” con la UE sui decimali di deficit. Tuttavia, la vita residua del debito è attualmente di 6,8 anni, per cui ogni anno giunge a scadenza meno di un settimo dello stock e solo nell’arco degli anni il minore costo sostenuto sui titoli di nuova emissione si traduce in un abbassamento del costo complessivo.

Prendiamo il mese di ottobre, quando i rendimenti italiani sono esplosi alla media ponderata del 2,8% sul mercato. Ebbene, il Tesoro quel mese riusciva a rifinanziarsi al costo del 2%, decisamente più basso. In ogni caso, è al costo del debito in scadenza che bisogna guardare per capire l’evoluzione dei conti pubblici. Circa i due terzi dello stock risulta ormai emesso dal 2013, anno in cui i rendimenti iniziavano la discesa, in attesa del varo degli stimoli BCE, effettivamente arrivati nel 2014 con il taglio dei tassi e, soprattutto, nel 2015 con il lancio del “quantitative easing”. Per questo, il costo medio del debito si è abbassato dagli 82 miliardi di euro del 2012 ai 65-66 dell’ultimo biennio.

Gli interessi sul debito hanno azzerato i sacrifici degli italiani

Trend ancora positivo per il costo del debito

Il calo proseguirà fino a quando il costo delle nuove emissioni non supererà quello dei bond in scadenza. Verosimilmente, ciò accadrà non prima di alcuni anni da ora. Si consideri che nel 2014, le emissioni ci costavano ancora l’1,35% medio, una percentuale più alta di quella del 2018. E l’anno prima, erano al 2,08%, il doppio. E prima della crisi superavano il 4%. A stock invariato, ci vorrebbero anni prima di registrare un aumento dei costi rispetto al pil. E’ vero, però, che nel frattempo il debito pubblico è cresciuto e di oltre 300 miliardi solo dal 2012. Questo significa che, ai fini della stima dell’incidenza del costo complessivo sul pil, bisogna tenere conto sia del costo delle nuove emissioni che dello stock rispetto al pil. Se dovessimo porci come limite massimo un costo complessivo al 4% del pil, ad esempio, dovremmo tenere il rendimento medio sotto il 3%. Fino ad allora, il costo del debito dovrebbe continuare a ridursi in rapporto al pil.

Il problema è semmai politico. I risparmi che continuiamo a ottenere dalla discesa del rapporto tra costo del debito e pil vengono puntualmente utilizzati dai governi per altri fini di spesa pubblica. E così, il deficit scende di poco, pur in presenza di condizioni monetarie molto accomodanti. In sostanza, la BCE di Mario Draghi ci ha “regalato” fino a una quindicina di miliardi di euro all’anno in minori interessi da pagare e i governi di Roma li hanno impiegati per altri capitoli del bilancio statale. Ora che non c’è più il QE, se non in forma di reinvestimento degli assets in scadenza, i rendimenti dovrebbero salire, anche se il rallentamento economico in corso nell’Eurozona prefigurerebbe un’uscita dall’accomodamento molto più lenta delle attese. A meno di immaginare un’ulteriore esplosione dello spread, sembra difficile che i rendimenti medi delle nuove emissioni tendano al 3%, quando già hanno ripiegato di circa 7 decimi di punti in un paio di mesi sull’allentamento delle tensioni con Bruxelles riguardo alla manovra di bilancio.

L’importante è non ipotecare i risparmi per dilatare incessantemente la spesa pubblica. Agli attuali rendimenti medi sul mercato, pagheremmo a regime una ventina di miliardi in meno, a parità di stock del debito; circa l’1,1% del pil. La buona notizia è che probabilmente l’Italia ha anticipato con velocità drammatica il rialzo dei rendimenti che avrebbe subito solo gradualmente nei mesi e negli anni per via della normalizzazione monetaria attesa. La cattiva è che a Roma siamo diventati maestri di harakiri e che di governo in governo sembra solo una gara per deteriorare la credibilità dei nostri bond.

Debito pubblico, questione di interessi: ecco come Francia e Germania ci battono sui conti

[email protected]