Gli anni Ottanta si chiusero politicamente in Italia con il varo del VI Governo Andreotti. Era il 23 luglio del 1989 e l’esecutivo sarebbe durato fino all’aprile del 1991. Il debito pubblico quell’anno avrebbe superato il 95% del pil, un livello altissimo, se si considera che in Germania non arrivasse ancora nemmeno al 40% e in Francia giacesse sotto il 35%. Insomma, già allora eravamo un’eccezione negativa nell’Occidente, eppure ciò non impediva all’agenzia Moody’s di assegnarci il rating “AAA” sin dal 1986 e che mantenemmo fino all’estate del 1991.

E qualche anno più tardi, S&P ci assegnava un ottimo “AA+”, il secondo giudizio più alto della sua scala, che avremmo tenuto fino al 1993.

L’illusione dell’Italia di non fare i conti con il debito pubblico s’infrangerà a settembre

E proprio nel 1993, l’Italia arrivò a pagare oltre 12 punti di pil per gli interessi sul debito, quasi 4 volte in più rispetto allo scorso anno, quando il rapporto debito/pil risultava schizzato al 135%. Malgrado ciò, adesso l’Italia lotta con tutte le sue forze per evitare il declassamento a “spazzatura” del suo debito, cioè a “BB+” o meno. Al momento, ci mancano 1-2 gradini per retrocedere tra gli emittenti speculativi. E dire che nell’euro ci eravamo entrati con il retro-pensiero che avremmo dribblato proprio le nostre difficoltà finanziarie.

Cos’è successo in questo ultimo trentennio? Com’è stato possibile che sotto la lira avevamo un rating come la Germania e con l’euro ci siamo ritrovati tra gli ultimi della classe, insieme alla Grecia? Partiamo da quell’ultima parte degli anni Ottanta. Allora, il debito pubblico italiana galoppava in termini percentuali e in valore assoluto, a causa di uno squilibrio fiscale strutturalmente elevato, a cui si aggiungeva una crescente incidenza della spesa per interessi. Per contro, l’economia italiana cresceva ancora a ritmi superiori al 3%, pur “drogata” proprio dall’eccesso di debito, mentre l’inflazione restava mediamente sopra il 6%.

Il rating italiano con l’euro

Per quanto insostenibile fossero quelle condizioni finanziarie, le agenzie di rating evidentemente confidavano nella capacità dell’Italia di mettere in sicurezza il suo debito con politiche di aggiustamento dei conti pubblici. Queste sarebbero divenute più credibili e veloci con la marcia di avvicinamento all’euro, ma paradossalmente quello è stato il periodo in cui iniziarono i declassamenti del rating, con una seconda ondata micidiale avutasi nell’ultimo decennio. Per capire come mai, dobbiamo fare riferimento proprio all’euro, che è la moneta unica di 19 stati diversi, ciascuno con una politica fiscale autonoma, per quanto raccordata dalla Commissione europea in ottemperanza al Patto di stabilità.

Fino a quando il debito pubblico italiano può considerarsi sostenibile?

Fino a quando c’era la lira, il tasso di cambio rifletteva sostanzialmente i fondamentali macro della nostra economia. Il suo progressivo indebolimento era frutto della perdita di competitività delle nostre imprese, a causa sia dell’alta inflazione, sia del costo crescente delle rigidità sindacali, normative e burocratiche e della tassazione. Quel cambio flessibile, però, consentiva all’economia di barcamenarsi sui mercati internazionali, pur pagando il costo di una instabilità cronica dei prezzi, che a sua volta si rifletteva sul debito tramite interessi crescenti, il cui stock non faceva che crescere anche in rapporto al pil.

Con l’euro, il cambio riflette i fondamentali dei 19 stati nel loro insieme, non di uno in particolare. Pertanto, se un’economia nell’Eurozona resta indietro rispetto alle altre, l’euro per essa diventa forte e tende a perpetuarne gli squilibri con le altre economie concorrenti, a meno di non varare riforme dall’impatto depressive sui salari e i consumi, cosa piuttosto difficile in uno scenario di bassa crescita e senza un raccordo automatico tra politica fiscale ed economica.

A queste considerazioni se ne aggiunge un’altra: le agenzie di rating tendono a ipotizzare che uno stato che batte conio abbia scarse probabilità di andare in default. Perché? A mali estremi, “stamperebbe” moneta per ripagare i suoi debiti.

Moneta non sovrana vero problema dell’Italia?

L’osservazione è un po’ più complessa. In sostanza, uno stato con moneta sovrana può attuare la politica monetaria che più si addice alle sue esigenze, sebbene non esistano pasti gratis in ogni caso. Ad esempio, con la lira avremmo con ogni probabilità una Banca d’Italia ancora più espansiva di quanto non sia oggi la BCE, ma con il risultato di esporci alla volatilità del cambio e ad un’inflazione più elevata. Questo conterrebbe gli interessi e garantirebbe una maggiore percepita solvibilità del debito. Attenzione, però, perché dopo il “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro del 1981, anche con la lira registrammo un’impennata della spesa per interessi, per cui dovremmo arrivare a ipotizzare che solo la messa in discussione dell’indipendenza della banca centrale riuscirebbe a ridurre tale incidenza, un fatto alquanto sgradito per le conseguenze macro che si porterebbe dietro.

Da notare, a conferma di quanto scritto, che anche i recenti casi di default di paesi come Argentina e Libano abbiano a che fare con l’emissione di debito non direttamente controllabile dai rispettivi governi, in quanto emesso in valute straniere. Parliamo dei bond in dollari ed euro, essenzialmente. Ma la ragione per cui queste economie siano costrette a indebitarsi in valute straniere risiede nella scarsa fiducia che altrimenti i rispettivi bond riscuoterebbero sui mercati, dato che in pochi vorrebbero investire in titoli soggetti a svalutazione per via di una politica monetaria considerata lassista. Dunque, l’Italia fuori dall’euro non sarebbe magari stata costretta a indebitarsi in valute straniere, ma avrebbe accusato le conseguenze della sfiducia sul mercato, pagando interessi altissimi per scontare un cambio ballerino e inflazione a doppia cifra.

E questo nel tempo sarebbe divenuto insostenibile, portando con ogni probabilità agli stessi declassamenti del rating.

Rating Italia sotto la lira più alto?

L’unico dubbio rimane su cosa sarebbe stato, se l’Italia avesse proceduto a un serio risanamento dei conti pubblici sotto la lira e senza tendere all’euro. Probabilmente, una moneta che rispecchiasse i fondamentali macro della nostra economia avrebbe garantito un tasso di crescita maggiore e a sua volta esso avrebbe contribuito al consolidamento fiscale, creando anche le condizioni politiche per il varo di riforme strutturali, le stesse che pensavamo che avremmo adottato grazie al “vincolo esterno”, rivelatosi un cappio, anziché un incentivo. Non è forse casuale – ripetiamo – che il giudizio sul debito pubblico italiano abbia iniziato a deprimersi con la marcia per l’ingresso nell’euro, quando forse le agenzie iniziarono a scontare una maggiore rigidità della cornice monetaria rispetto alle nostre effettive condizioni economiche, fiutando il rischio che saremmo finiti per emettere un debito meno controllabile.

In conclusione, non stiamo affermando che sotto la lira avremmo senz’altro mantenuto la tripla “A” o, comunque, giudizi lusinghieri delle agenzie di rating. Semmai, avremmo potuto godere di condizioni più favorevoli per risanare i conti pubblici, all’interno di un’architettura monetaria costruita su misura della nostra economia e non di quelle di un’area composita come l’Eurozona. Il mantenimento della stabilità dei prezzi si sarebbe imposto in ogni caso come obiettivo primario di politica economica per non perdere il controllo del cambio, ma almeno avremmo emesso debito in una moneta “nostra”, cosa che le stesse agenzie ritengono avrebbe, a parità di condizioni, consentito all’Italia di beneficiare di rating di un paio di gradini più in alto. Forse, saremmo ancora nella parte bassa dell’area “A”.

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