Il dibattito sull’uscita dell’Italia dall’euro è il solito conto senza l’oste. Quando negli anni Novanta decidemmo di entrare nell’Eurozona, lo facemmo non sulla base di un complotto internazionale ordito a nostra insaputa o attraverso la circonvenzione di politici incapaci a Roma, bensì di un ragionamento, che giusto o sbagliato, ebbe basi logiche: porre fine all’era della liretta, che oltre ad averci regalato un quindicennio abbondante di alta inflazione, ci lasciava in dote il più alto debito pubblico in rapporto al pil del mondo avanzato.

Il ricorso al vincolo esterno avrebbe garantito politiche fiscali meno sprovvedute e posto rimedio automaticamente agli squilibri generati da una politica monetaria e dei cambi inefficiente e interventista, il cui fallimento era sotto gli occhi di tutti gli italiani già con la caduta della Prima Repubblica.

Perché il debito pubblico italiano sarebbe già al 160% tornando alla lira

Perché con il ritorno alla lira rischieremmo di peggiorare la nostra situazione fiscale? In genere, livelli d’inflazione più elevati vengono considerati positivi per ridurre il peso del debito, in quanto questo si rapporterebbe a un pil dal valore nominale più alto. Facciamo un esempio: se l’Italia con l’euro ha un’inflazione dell’1% e una crescita del pil anch’essa dell’1%, mentre il debito pubblico è al 132%, immaginando che il governo riesca a chiudere l’esercizio senza fare nuovi debiti, ovvero in pareggio di bilancio, in un anno questo si riduce al 129,4% (il pil passa da 100 a 102). Se con una Banca d’Italia tornata a stampare lire, l’inflazione salisse, per ipotesi, al 3%, fermo restando tutto il resto, il debito pubblico in un solo anno scenderebbe a meno del 127%. Dunque, meglio sarebbe, in teoria, un’inflazione più alta per sfoltire l’indebitamento, cosa non possibile con la BCE, il cui obiettivo consiste nel perseguire un tasso d’inflazione annuo di poco inferiore al 2%.

Il debito in lire ci costerebbe di più

Aldilà dell’impatto negativo che l’inflazione tende ad avere sul mercato del lavoro e sull’economia, in generale, essa finisce con l’aumentare i rendimenti nominali richiesti dal mercato per i titoli di stato, visto che gli investitori si mostrano interessati a percepire un dato livello reale di rendimento, non già nominale. In altre parole, una cosa sarebbe un BTp che offrisse il 4% con un’inflazione al 2% e un’altra un BTp sempre al 4% e con un’inflazione al 5%. Nel primo caso, un investitore domestico percepirebbe il 2% reale, nel secondo perderebbe l’1%. Si dirà che nessun impatto vi sarebbe per un investitore straniero, che non risiedendo in Italia, non subirebbe l’aumento dell’inflazione. E, però, le economie con tassi di crescita dei prezzi più alti tendono anche a subire un deprezzamento dei tassi di cambio, per cui gli investitori stranieri, nel calcolare il rendimento desiderato, dovrebbero scontare le attese ribassiste per l’eventuale lira contro l’euro, il dollaro, la sterlina, etc. Il fattore reputazione gioca un ruolo importante nelle attese e la Banca d’Italia ha lasciato un pessimo ricordo di sé sulla capacità di contrastare l’inflazione e di stabilizzare il cambio.

Poiché i cambi variano sulla base anche della divergenza monetaria attesa con le principali banche centrali del pianeta (Federal Reserve, BCE, BoE, BoJ, etc.) e dei prezzi delle materie prime, la lira si mostrerebbe una divisa poco prevedibile, instabile, a meno che l’Italia non stipulasse un accordo con Francoforte per fissare una parità centrale lira-euro attorno alla quale mantenere il cambio, ma con ciò limitando i benefici presunti dal ritorno alla sovranità monetaria e di fatto essendo costretta ad ancorare l’inflazione ai tassi vigenti nell’Eurozona, se non volesse subire un assottigliamento delle riserve valutarie, il quale porterebbe all’insostenibilità del “peg”.

Pertanto, per ragioni diverse, sia gli investitori domestici che quelli nazionali finirebbero per chiedere rendimenti reali superiori a quelli odierni, scontando un rischio più alto, anche sul fronte della sostenibilità del debito pubblico, perché un’Italia tornata alle briglie sciolte in politica fiscale rassicurerebbe molto meno chiunque. In fondo, nonostante gli scarsi progressi compiuti dal nostro Paese in era euro sul piano della riduzione del debito, negli ultimi 30 anni abbiamo chiuso il bilancio con un avanzo primario per circa 25 volte, cosa che non è riuscita nemmeno alla Germania. Ciò è stato possibile anche grazie al vincolo esterno dell’euro, senza il quale sarebbe possibile assistere a un azzeramento di tale avanzo (aumento della spesa pubblica e/o riduzione delle entrate fiscali), in concomitanza a una lievitazione della spesa per interessi, che prima dell’euro ammontava mediamente al 10% del pil contro il 4-5% degli ultimi anni. E se già oggi solo meno di un terzo del debito pubblico italiano è in mano ai creditori stranieri, figuriamoci a quale fuga assisteremmo nel caso di un ritorno alla lira. Pensare che il mercato domestico dei risparmi da solo sarebbe in grado di finanziare 2.300 miliardi di passività senza che ciò impatti notevolmente sul bilancio statale è pura ostentazione di ottimismo. E aumento della spesa per gli interessi equivale a maggiore austerità fiscale, l’esatto contrario di quanto ambiscano i fautori del ritorno alla lira.

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