Le tensioni nell’Eurozona montano di giorno in giorno sull’utilizzo degli strumenti più idonei per reagire alla grave crisi economica provocata dall’emergenza Coronavirus. L’Italia guida il fronte dei paesi favorevoli agli Eurobond, emissioni di debito in comune, in forma di “Coronabond”, ossia titoli finalizzati ad affrontare le conseguenze della pandemia e i cui capitali così raccolti il governo Conte vorrebbe fossero erogati agli stati senza condizioni. La Germania, spalleggiata da un’Olanda molto più “falco” del solito, pretende che gli aiuti vengano richiesti al Meccanismo Europeo di Stabilità e che questi fossero soggetti a condizionalità minime.

La soluzione viene considerata inaccettabile persino dalla Francia, che con il presidente Emmanuel Macron teme che, in caso di richiesta di sostegno, i paesi finiscano per essere commissariati e subiscano l’effetto stigma sui mercati.

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Questo dibattito risulterebbe superato, qualora il 5 maggio qualcosa andasse storto in Germania. La Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe è chiamata ad esprimersi sulla conformità del “quantitative easing” della BCE alla Carta fondamentale nazionale. Già nel 2016, adita dall’ala più conservatrice dei cristiano-democratici della cancelliera Angela Merkel, si era espressa a favore del programma di acquisti dei bond da parte di Francoforte, purché essi fossero “limitati” e “preordinati”. L’allora governatore Mario Draghi la spuntò, quindi, dopo anni di forti resistenze della Bundesbank.

A marzo, però, quel programma è stato modificato in più parti: nell’ammontare, i 20 miliardi di acquisti mensili sono stati rafforzati prima da altri 120 miliardi con interventi entro l’anno e successivamente dal cosiddetto PEPP, un piano di emergenza da 750 miliardi, anch’esso consistente in acquisti di assets fino alla fine dell’anno o, comunque, fino a quando non sarà cessato l’allarme pandemico. I giudici costituzionali tedeschi potrebbero considerare eccessive le somme, come fossero una sorta di monetizzazione mascherata dei debiti sovrani.

Senonché, il PEPP deroga anche alla regola del “capital key”, cioè non lega più le mani alla BCE come con il QE ordinario, per cui questa non è tenuta ad acquistare bond in proporzione alle dimensioni economiche nazionali. Infine, l’istituto ha rimosso il limite del 33% per gli acquisti di bond governativi su ciascuna emissione e del 50% per quelli sovranazionali.

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Queste nuove condizioni violerebbero apertamente i paletti fissati da Karlsruhe per giustificare il suo assenso al QE di Draghi, ponendo rischi a carico dei contribuenti tedeschi, i soggetti tutelati dalla Corte. Se il 5 maggio i giudici se ne uscissero con una sentenza di accoglimento del ricorso contro il nuovo piano BCE, la Germania non potrebbe più autorizzare la Bundesbank ad adempiervi, cioè dovrebbe ritirarsi almeno dal PEPP. A quel punto, la BCE continuerebbe pure ad acquistare bond di tutti gli altri stati, ma così facendo renderebbe evidente come il piano finisca per sostenere i debiti degli stati con problemi fiscali, cosa che lo priverebbe di qualsivoglia conformità alla Costituzione tedesca.

Infine, se persino il QE dovesse essere considerato incompatibile con le condizioni fissate dalla Corte stessa nel 2016, in quanto la BCE non starebbe più rispettando le limitazioni in fase di acquisto di bond su ciascuna emissione, verrebbe meno l’intero impianto di politica monetaria, basato sul “capital key”. Senza poter più acquistare Bund, infatti, automaticamente dovrebbero cessare gli acquisti di tutti gli altri titoli di stato. E capiamo benissimo che una sentenza in tal senso di Karlsruhe delegittimerebbe l’operato di Christine Lagarde, ponendo fine ai suoi piani di sostegno ai bond nella lotta contro la crisi. Senza girarci troppo attorno, BTp e Bonos, in particolare, verrebbero esposti alla speculazione dei mercati e la sopravvivenza dell’euro verrebbe minacciata in maniera finanche irreparabile.

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Ci sono elevate probabilità che i giudici tedeschi ci tirino un brutto scherzo? In questi anni, si sono mostrati inclini alla ragion di stato, contemperando l’esigenza di tener fede allo spirito della Grundgesetz con quella di rendere possibile la convivenza pacifica tra la Germania e il resto dell’Eurozona. Ad occuparsi della sentenza saranno gli 8 giudici del secondo senato della Corte, equamente divisi tra 4 esponenti socialdemocratici e 4 cristiano-democratici. In teoria, supponendo che solo i secondi optassero per votare contro il QE, non avrebbero nemmeno la maggioranza semplice per far valere la loro opinione, anche perché qui la presidenza è in mano al socialdemocratico Andreas Vosskuhle.

La decisione di Karlsruhe

Falso allarme, quindi? Nulla è scontato. Gli alleati di Frau Merkel a parole appaiono molto più aperti del centro-destra su questioni come gli Eurobond, ma il loro massimo rappresentante nel governo, il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, al tavolo delle trattative sul tema non ha certo aperto a soluzioni di solidarietà effettiva, anzi continua ad indicare la strada del MES per la richiesta di aiuti. Certo, la Corte non dovrà decidere sugli Eurobond, ma non neghiamo nemmeno che non risentirà dell’opinione pubblica tedesca.

Se per allora la Germania sarà riuscita a chiudere un accordo che sventi per essa il pericolo degli Eurobond, sottoponendo l’Italia alla procedura del MES, i tedeschi saranno già mezzi soddisfatti di come siano andate le trattative e i giudici potranno verosimilmente permettersi una sentenza morbida verso la BCE. Se, al contrario, per il 5 maggio non si fosse giunti ad alcuna intesa e l’Italia continuasse ad insistere sugli Eurobond, la pressione politica sulla Corte monterebbe, affinché i giudici non inviino al resto dell’area un segnale di accettazione delle condizioni altrui, percepite di vero lassismo fiscale. Berlino sinora ha demandato alla giustizia per decidere su temi di rilevanza politica e lasciare che formalmente siano le toghe rosse ad assumersi certe responsabilità agli occhi dei tedeschi.

Ma siamo sicuri che stavolta non utilizzi la sentenza per fregare gli alleati? Da qui, la fretta della cancelliera per sottoporre Italia e Spagna al semi-commissariamento del MES.

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