A giugno, il debito pubblico italiano è salito al nuovo record storico di 2.696,2 miliardi di euro, in crescita di 9,2 miliardi da maggio e a +126,9 miliardi quest’anno. E a luglio, l’Unione Europea ha erogato all’Italia la prima tranche del Recovery Fund per 24,9 miliardi, di cui 9 miliardi in forma di sovvenzioni e quasi 16 miliardi di prestiti. Quest’ultima parte va restituita, per cui sarà da conteggiare anch’essa come debito pubblico.

Di allarme per i conti pubblici italiani si parla ormai da decenni, ma ciò che contraddistingue in negativo questa fase è l’assenza di timore per la condizione fiscale in cui è piombato il nostro Paese a causa del Covid.

Siamo passati nel giro di niente dall’allarmismo a ogni piè sospinto al quasi menefreghismo. La politica romana si compiace di quello che ha ribattezzato arbitrariamente come “debito buono”, prendendo a prestito e pretestuosamente un’espressione utilizzata dal premier Mario Draghi mesi prima che entrasse a Palazzo Chigi.

Tutto è diventato pretesto per fare nuovo debito pubblico, tanto la BCE tiene i tassi bassi e acquista i BTp. La lungimiranza italica è quel che è, lo sappiamo. A Roma, potete scommetterci, i polituncoli alzeranno il dito contro Francoforte quando dovrà essere varata una stretta monetaria. Già il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, si è appellato all’Europa, affinché non ceda alle logiche della Federal Reserve, che vorrebbe prima o poi alzare i tassi. Come se la banca centrale dovesse ignorare il suo mandato, cioè di mantenere la stabilità dei prezzi, per finanziare l’infinita lista della spesa del governo italiano.

Debito pubblico e Recovery Fund

Tornando al debito pubblico, è da molto tempo motivo di preoccupazione la carente crescita della nostra economia. Se il PIL non cresce o cresce lentamente, il debito al numeratore tende a galoppare, finendo per gravare sempre più sui bilanci tramite la voce “spesa per interessi”.

Prima della crisi mondiale del 2008-’09, essa valeva quasi il 5% del PIL. Ormai, è scesa in area 3,5%. Nel frattempo, però, il rapporto debito/PIL è schizzato di circa 55 punti. Miracolo della BCE, per l’appunto!

Ma c’è un’altra voce che desta preoccupazione: la spesa per investimenti pubblici è scesa dal 3% a poco più del 2% prima del Covid. In termini assoluti, ogni anno lo stato italiano tende a spendere ormai quasi 30 miliardi di euro in più per pagare gli interessi che non a investire. Perché è motivo di allarme? Gli investimenti sono una spesa per il futuro, potenziando il tasso di crescita dell’economia grazie al miglioramento delle infrastrutture, della ricerca, etc. Ma ormai questa voce basta a sufficienza a coprire gli ammortamenti, cioè a non deprimere il potenziale di crescita, senza riuscire ad accrescerlo.

Questo significa che spendiamo più per regolare i conti con il passato (spesa sul debito) che non per guardare al futuro e cercare di migliorarlo. Così facendo, stiamo votandoci al declino inesorabile. Un cambio di passo resta possibile, ma chiaramente a patto di spostare voci dalla spesa corrente a quella per investimenti. Il Recovery Fund ci aiuta solo in parte in questa operazione, visto che su oltre 190 miliardi di risorse destinate all’Italia, circa 127 miliardi sono prestiti, cioè nuovo debito. E certo che indebitarsi per investire è meglio che indebitarsi per fare spesa corrente. In fondo, questo aveva invocato Draghi prima di diventare premier parlando di “debito buono”. Ma sempre di debito si tratta. E di questo passo non sarà sostenibile.

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