Le pensioni sono diventate il grande tema attorno a cui sta ruotando il dibattito tra governo e parti sociali dopo il varo del decreto Aiuti quater contro il caro energia. L’ipotesi che prende sempre più consistenza sarebbe di Quota 41. Tutti i lavoratori potrebbero andare in pensione con almeno 41 anni di contributi. Poiché la misura costerebbe sui 4-5 miliardi di euro all’anno, un modo per abbattere il costo sarebbe di accompagnare il requisito a un altro di tipo anagrafico: almeno 61-62 anni di età.

In questo modo, stando ai calcoli dell’esecutivo, la misura non peserebbe per più di 1 miliardo di euro all’anno al massimo.

Come funzionerebbe l’incentivo per restare al lavoro

Sin qui siamo alle voci che si rincorrono da mesi. Tuttavia, il governo starebbe anche ipotizzando un sistema di incentivi a favore di chi resta al lavoro, pur possedendo i requisiti per andare in pensione. Il lavoratore che si avvalesse di questa opzione, smetterebbe di pagare i contributi all’INPS, così come il suo datore di lavoro. Parte di tale minore prelievo dalla busta paga si tradurrebbe, però, in un aumento dello stipendio. Per il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ammonterebbe anche al 10%.

In definitiva, l’impresa sosterrebbe un costo del lavoro più basso e il lavoratore percepirebbe uno stipendio più alto. Questa misura punterebbe a rinviare l’età media del pensionamento in Italia e a mantenere sul mercato alcune maestranze e conoscenze di cui a fatica ci si può spesso permettere di rinunciare. Basti pensare ai medici negli ospedali.

Pensioni 2023, due aspetti da valutare

Ma sarebbe opportuno per il lavoratore considerare un paio di aspetti della riforma sulle pensioni oggetto di discussione in questi giorni. La prima è che gli anni di anzianità maturati sotto l’incentivo non sarebbero conteggiati ai fini del calcolo dell’assegno.

Ed è normale che sia così: non essendoci contributi versati, il periodo lavorato non servirebbe ad aumentare il montante.

Non solo, c’è anche la penalizzazione che rimarrebbe in capo a coloro che, in ogni caso, decidessero successivamente di andare in pensione prima dei 67 anni di età. Infatti, per la quota contributiva il coefficiente di trasformazione calcolato per tradurre il montante in assegno si abbassa per ogni anno di età più basso. Facciamo un esempio pratico. Il signor Mario Rossi decide di restare al lavoro, pur disponendo di 41 anni di contributi e 63 anni di età. Percepisce uno stipendio lordo mensile di 2.500 euro, che grazie all’incentivo offerto dal governo sale fino a circa 2.750 euro (+10%).

Decide di continuare a lavorare per un paio di anni ancora, cioè fino a 65 anni. A quel punto, va in pensione. I contributi accumulati fino ai 63 anni di età saranno moltiplicati per un coefficiente pari a 0,0522 per determinare l’assegno, inferiore allo 0,0575 che gli sarebbe stato applicato se fosse andato in pensione a 67 anni. In conclusione, l’incentivo serve a stimolare l’occupazione tra i lavoratori a ridosso della pensione, ma deve essere valutato per quello che è dai potenziali beneficiari. Gli anni lavorati senza versare contributi non servirebbero a nulla ai fini pensionistici, né eviterebbero la penalizzazione nel caso in cui si decidesse successivamente di ritirarsi dal lavoro prima dell’età pensionabile ufficiale.

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