Il capitolo previdenza assorbirà gran parte delle attenzioni e delle risorse che il nuovo governo della premier Giorgia Meloni dovrà dedicare nelle sue prime settimane di vita. E non solo perché bisognerà trovare fino ad altri 10 miliardi di euro di coperture per rivalutare gli assegni alla più alta inflazione rispetto alle previsioni. C’è anche da apportare qualche altro correttivo alla legge Fornero per garantire più flessibilità in uscita ai lavoratori dopo la fine di quota 102 e tecnicamente anche di Opzione Donna e Ape Social.

Nel mirino dell’esecutivo tornano le pensioni d’oro.

L’espressione è impropria, prettamente giornalistica. Quali sono? Non esiste una definizione accettata da tutti. Grosso modo, per pensioni d’oro il programma di Fratelli d’Italia intenderebbe gli assegni di importo superiore ai 5.000 euro al mese.

E cosa accadrebbe? Diciamo, anzitutto, che già da anni le pensioni d’oro sono oggetto di interventi dello stato. Nel 2018, l’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ne propose l’abolizione secca. In altre parole, nessun pensionato avrebbe potuto percepire oltre 5.000 euro al mese. Invece, nel 2019 il governo giallo-rosso introdusse un contributo di solidarietà del 15% sopra 100.000 euro lordi annuali e fino al 40% per gli assegni sopra i 500.000 euro.

Il disegno di Di Maio si rivolgeva anche alle pensioni d’oro giustificate dai contributi versati. Non se ne fece nulla. In primis, perché la misura sarebbe risultata con ogni probabilità incostituzionale. Secondariamente, perché dalle stesse stime del ministero emerse che l’extra-gettito per lo stato sarebbe ammontato a 1 miliardo di euro. Nulla.

Pensioni d’oro verso ricalcolo contributivo?

E cosa vuole fare il governo Meloni? In attesa di verificare con i fatti le intenzioni, pare di capire che la premier voglia ricalcolare tutti gli assegni erogati dall’INPS di importo superiore ai 5.000 euro sulla base dei contributi versati. In parole semplici, esistono assegni alti in Italia non giustificati dai contributi.

Essi furono determinati, specie in passato, dal calcolo retributivo: si prendeva una percentuale dello stipendio medio degli ultimi tot anni.

Dunque, possono stare tranquilli coloro che hanno versato sufficienti contributi da giustificare l’assegno che percepiscono. Ma la verità è che avrebbero poco da temere anche tutti gli altri. Il ricalcolo degli assegni è facile da dirsi, complicato nei fatti. Siamo sicuri che l’INPS possegga la storia contributiva di beneficiari andati in pensione decenni fa? E la misura sarebbe costituzionale, se introdotta retroattivamente? Più probabile, a questo punto, che il governo intervenga diversamente sulle pensioni d’oro, magari abbassando drasticamente o azzerando dal 75% la percentuale di adeguamento degli assegni all’inflazione per gli importi sopra 5 volte il trattamento minimo (circa 2.620 euro al mese) per la parte non giustificata dalla contribuzione.

In ogni caso, le risorse che si otterrebbero tagliando le pensioni d’oro sarebbero scarse. Non finanzierebbero né la flessibilità in uscita promessa ai lavoratori, tantomeno la maxi-rivalutazione degli assegni. Resta una soluzione di equità sociale, sebbene sia poco corretto dire a una pensionato che percepisce un assegno parzialmente non dovuto dopo anni o decenni. Una stretta probabilmente ci sarà, ma non immaginatevi alcunché di radicale.

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