Nei giorni scorsi, l’OCSE ha pubblicato un grafico nel quale si evince che l’Italia avrà l’età tra le più alte per andare in pensione in futuro: a 71 anni, come in Estonia e Olanda, meno solamente dei 74 della Danimarca. I giovani di oggi, quindi, dovranno sgobbare al lavoro circa una decina di anni in più, dato che l’età pensionabile effettiva in Italia è attualmente di appena 61,8 anni, meno dei 63,1 anni della media OCSE.

Ma non è l’unico e neppure il vero problema dei giovani lavoratori italiani.

Percepiranno una pensione nettamente più bassa di quella che hanno potuto incassare i loro genitori e nonni. Ufficialmente, le cose starebbero messe molto bene, dato che a 71 anni prenderebbero l’82% dell’ultima retribuzione, molto più del 62% della media OCSE. Ma questo dato si riferisce a carriere lavorative senza interruzioni. Il punto è proprio questo: in Italia, i giovani entrano nel mercato del lavoro in tarda età e a lungo vi restano in condizioni precarie, cioè con contratti a tempo e bassi stipendi.

Ed ecco che la pensione integrativa si rivelerebbe essenziale per non rischiare una terza età da fame. Ma passare dalle parole ai fatti è durissima. Bisognerebbe accantonare una quota del reddito mensile da destinare a un fondo previdenziale privato. Per farlo, però, servirebbe avere uno stipendio adeguato e un lavoro stabile, proprio ciò che manca a tantissimi lavoratori giovani in Italia. Del resto, con una contribuzione obbligatoria del 33%, rimane ben poco dello stipendio anche a chi ha la fortuna di percepirlo stabilmente.

Pensione giovani, il circolo vizioso

Da anni si parla di abbattere il cuneo fiscale, cioè di ridurre sostanzialmente i contributi e l’IRPEF a carico dei lavoratori. Se per la seconda sappiamo quante difficoltà il governo incontri nel coprire il mancato gettito fiscale, per i primi è ancora più difficile. Già oggi l’INPS paga per le pensioni più dei contributi che incassa.

La differenza la mette lo stato. Tagliare i contributi significherebbe o ridurre la spesa pensionistica in qualche modo o spingere lo stato ad attingere ancora di più alla fiscalità generale o a tagliare qualche altra voce di spesa per coprire l’ammanco.

E’ il cane che si morde la coda: finché i contributi obbligatori restano così alti, gli stipendi netti saranno bassi e l’occupazione stessa non decolla. Ma non si possono abbassare, perché servono a pagare le pensioni di oggi, anche a chi continua ad uscire dal lavoro ben prima dei 67 anni dell’età ufficiale. Incentivare fiscalmente il ricorso alla previdenza integrativa serve, ma non risolve il problema alla radice. L’unica soluzione strutturale consisterebbe nell’aumentare drasticamente l’età pensionabile effettiva per abbattere la spesa pensionistica e così anche i contributi obbligatori. S’innescherebbe un circolo virtuoso tra occupazione e crescita degli stipendi, a beneficio sia delle casse dell’INPS, sia delle pensioni di domani. Eppure, il dibattito italiano resta concentrato sull’oggi.

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