Per investire bisogna programmare e per programmare bisogna conoscere. E in Italia mancano una sufficiente conoscenza e consapevolezza dell’evoluzione del sistema previdenziale, che se vi fossero spingerebbero una fetta di lavoratori in più a ricercare nella pensione integrativa la soluzione a possibili cadute di reddito durante la terza età. Partiamo con ordine: tutti i pensionati hanno diritto a un assegno minimo, che per quest’anno è fissato in 513,01 euro al mese per 13 mensilità. I requisiti economici per averne diritto pieno consistono nel non dichiarare redditi annuali non superiori ai 6.669,13 euro nel caso si fosse non coniugati, grazie alla cosiddetta “integrazione al minimo”, prevista con legge sin dal 1983.

Essa spetta parzialmente per redditi superiori e fino a 13.338,26 euro o 26.676,52 euro nel caso di redditi coniugati.

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Questo significa che tutti i lavoratori, indipendentemente dai contributi effettivamente versati, possono aspirare a una pensione non inferiore a circa il vecchio milione di lire al mese. Tuttavia, questa garanzia vige per quanti continueranno ad andare in quiescenza con il sistema retributivo o misto. Nulla è ancora previsto per i titolari di pensione liquidata totalmente con il sistema contributivo, il quale si applica a quanti abbiano iniziato a versare contributi a partire dall’1 gennaio 1996, cioè a coloro che oggi posseggano sostanzialmente dai 43 anni di età in giù, ipotizzando che fino ai 18 anni non si sia svolto alcun lavoro regolarmente contrattualizzato.

In altre parole, gli under 40 sono a rischio povertà più di quanto immaginino, non potendo confidare nelle garanzie minime ad oggi previste per le generazioni più anziane. Da qui, l’impellenza di un piano di accumulo per ottenere un giorno un’integrazione grazie ai mezzi propri e non affidata al buon cuore dello stato. Certo, con livelli salariali mediamente bassi, gravati da una pressione fiscale e contributiva così decisamente elevata, solamente le fasce di reddito medio-alte potrebbero oggi ambire a una pensione integrativa dignitosa.

Confusione sulla pensione di cittadinanza

Il fatto è che lo stato italiano continua a inviare segnali discordanti sul futuro. Da un lato, allunga l’età pensionabile ai circa 70 anni di età per il 2050, dall’altro potenzia non già le garanzie minime a tutela della generalità dei pensionati, quanto quelle in favore dei cittadini, anche in età pensionabile. Ci riferiamo all’ultimo strumento noto come pensione di cittadinanza, mirante a consentire a ogni pensionato di percepire, a certe condizioni, un assegno mensile non inferiore ai 780 euro, lo stesso importo basico previsto per i cittadini maggiorenni in età lavorativa.

Questo sistema schizofrenico di assistenza induce alla confusione. Nella testa di molti italiani starebbe passando il concetto che la pensione minima d’ora in avanti sia di 780 euro al mese, ma non è affatto così. Anzitutto, perché la pensione di cittadinanza è un’espressione fuorviante, dato che non si tratta di una vera integrazione dell’assegno, quanto di un reddito extra erogato dallo stato tramite carta ricaricabile postale al pensionato titolare di trattamento basso. Secondariamente, il reddito/pensione di cittadinanza è una misura che ha poco di strutturale, soggetta a modifiche, se non a una vera cancellazione, nel caso di cambi di governo.

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E allora, lo stato italiano starebbe disincentivando i più giovani a ricorrere, avendone le possibilità, alla pensione integrativa, prospettando loro una soluzione che non esiste nei fatti. Vero, per i giovani di oggi e pensionati di domani continuerà ad esservi la scappatoia dell’assegno sociale, fissato a 453 euro al mese per 13 mensilità nel 2019. Ma anche in questo caso, i requisiti di accesso si mostrano restrittivi e l’importo erogato risulta con ogni evidenza insufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso.

No, non c’è alcuna pensione di cittadinanza da 780 euro e chi può e lo desidera, sarebbe bene che iniziasse a investire per il proprio futuro senza confidare sulla volatilità del legislatore.

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