L’amministrazione Trump ha concluso il 2020 con l’imposizione dell’embargo ai danni di Sime Darby, principale società produttrice di olio di palma della Malaysia. Il Customs and Border Protection (CBP) ha riscontrato l’impiego diffuso e ripetuto di lavoro forzato nella produzione della materia prima e, in virtù di una legge risalente agli anni Trenta del secolo scorso, ha disposto il divieto di importare olio di palma da questa società. Eventuali carichi potrebbero essere sequestrati sul territorio americano. Sime Darby è la terza società della Malaysia dopo FGV Holdings e Top Glove ad essere finita nel mirino delle autorità americane per lo sfruttamento della manodopera.

L’embargo rischia di avere conseguenze pesanti per quella che risulta essere la prima produttrice al mondo di olio di palma con una percentuale del 20% dell’offerta globale. Le accuse contrastano nitidamente con il messaggio rassicurante pubblicato da Sime Darby sul suo sito web: “Noi crediamo di avere la responsabilità di rispettare, sostenere e perseguire i diritti umani fondamentali, secondo quanto espresso dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e i Principi Guida delle Nazioni Unite sul Business dei Diritti Umani”.

Circa l’85% della produzione mondiale di olio di palma, ampiamente utilizzato nell’industria alimentare e della cosmetica, proviene solamente da due stati: Indonesia e Malaysia. La prima ha prodotto nel 2019 42,5 milioni di tonnellate, il 58% del totale nel mondo; la seconda 19 milioni di tonnellate, il 26%. Sappiamo che Sime impiega 24.800 lavoratori immigrati, il 63% dell’intera forza lavoro. Nel complesso, la Malaysia occupa 337 mila immigrati nelle piantagioni di olio di palma, principalmente provenienti da paesi come Indonesia, India e Bangladesh.

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Prezzi in forte rialzo per l’olio di palma

Le esportazioni della Malaysia verso gli USA nell’anno fiscale che si è concluso il 30 settembre scorso sono state pari a 410 milioni di dollari, il 31% dei consumi totali americani di olio di palma.

Di questi, però, solo 5 milioni sarebbero state le vendite di Sime Darby. Nel complesso, il 2020 è stato un anno complicato per questo mercato, che tra condizioni meteo avverse e distanziamento sociale da tenere anche durante i raccolti per l’emergenza Covid, ha visto arretrare la produzione globale di 4,5 milioni di tonnellate. Questo ha contribuito decisamente all’aumento dei prezzi: in euro sono saliti del 13% nei primi 11 mesi dell’anno a 775 euro per tonnellate. Nella valuta della Malaysia, si è registrato un +24% nel corso dei 12 mesi a circa 3.880 ringgit per tonnellata.

I prezzi potrebbero continuare a salire fino alle prime settimane del nuovo anno, tra l’altro anche per effetto dell’aumento dei dazi sulle esportazioni imposto dalle autorità indonesiane. Tuttavia, proprio la crescita vertiginosa delle quotazioni, ai massimi da tre anni in euro, fungerebbe da premessa per un tracollo nei mesi successivi, forse già a partire dalla tarda primavera. I consumi rischiano, infatti, di contrarsi per la ricerca di prodotti alternativi da parte delle aziende alimentari e cosmetiche. Peraltro, da anni l’olio di palma è al centro delle attenzioni dei governi e dell’opinione pubblica per le modalità con cui viene coltivato, ovvero per l’impatto ambientale derivante dalla deforestazione selvaggia e per lo scarso rispetto dei diritti umani tra i lavoratori impiegati, nonché per i presunti effetti nocivi che avrebbe sulla salute. Tuttavia, questi ultimi ad oggi non risultano realmente dimostrati. L’embargo americano con ogni probabilità accenderà ulteriormente i fari su questa industria.

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