La nazionalizzazione è passata da “ipotesi residuale” a “opzione”. La ricapitalizzazione precauzionale da parte del Tesoro per Banca Carige non è più esclusa o relegata a scenario improbabile, anzi verrebbe adesso considerata tra le opzioni per stessa ammissione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, vicinissimo a Matteo Salvini. Il decreto del governo emanato il lunedì sera e subito firmato dal Quirinale stanzia la cifra di 1,3 miliardi, di cui uno dedicato proprio all’eventualità di un ingresso del Tesoro nel capitale di Carige e i restanti 300 milioni a copertura delle emissioni dell’istituto e di eventuali prestiti ricevuti dalla Banca d’Italia entro i prossimi 6 mesi e fino a un controvalore massimo di 3 miliardi.

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La nazionalizzazione sarebbe l’ipotesi concreta nel caso in cui la banca ligure non riuscisse a trovare capitali privati per rafforzarsi sul piano patrimoniale, né a fondersi con un istituto di maggiori dimensioni e dai ratios solidi. E l’ipotesi non è peregrina, dato che il principale azionista attuale, Malacalza Investimenti, di un quarto aumento continua a non volerne sentire, avendo speso già 400 milioni dal 2014. Se accadesse, quindi, prima che lo stato ci mettesse un euro, la disciplina europea del “bail-in”, recepita anche dall’Italia ed entrata in vigore sin dal 2016, prevede che anche gli “stakeholders” della banca salvata condividano le perdite, accollandosele nella misura di almeno l’8% delle passività e nell’ordine a carico di azionisti, obbligazionisti subordinati, obbligazionisti senior e correntisti con giacenze superiori ai 100.000 euro e relativamente solo alle somme eccedenti tale limite.

Cosa succede agli obbligazionisti senior?

Il decreto di questa settimana esclude che gli obbligazionisti senior di Banca Carige vengano chiamati ad accollarsi anche solo parte delle perdite, tramite la conversione dei bond in azioni. Lo stesso “bail-in” prevede una simile ipotesi per il caso in cui il governo abbia fondate ragioni per temere una destabilizzazione finanziaria.

E il precedente di fine 2015, quando furono colpiti gli obbligazionisti subordinati e senior delle quattro banche poste in risoluzione (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti), gioca in favore di una simile lettura allarmistica, se è vero che da allora l’indice azionario delle banche a Milano perse il 60% nel giro di 8 mesi e che ne seguì una crisi di fiducia verso il sistema bancario italiano, il quale aggravò le difficoltà di altre banche di maggiori dimensioni, come MPS, Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Quanto alle obbligazioni subordinate di Carige, c’è una buona notizia: non ve ne sono più sul mercato. Anzi, l’unica di questo tipo effettivamente esistente è quella emessa a novembre per 320 milioni di euro e sottoscritta interamente dallo Schema Volontario di Intervento, il complesso delle banche aderenti al Fondo interbancario di tutela dei depositi, per cui non si trova nelle mani di alcun investitore individuale. Per il resto, le obbligazioni subordinate furono convertite in bond senior alla fine del 2017 con la Liability Management Exercise (LME), l’operazione da 510 milioni di euro, che puntava a rafforzare il capitale della banca, scambiando i titoli a più alto rischio con altri di nuova emissione e di rischio inferiore, ma a un valore del 30-70% più basso, a seconda che i bond subordinati da convertire fossero del tipo Tier I o II e fino alla data dell’11 ottobre di due anni fa, successivamente alla quale, le perdite nominali salivano al 35-75%.

I titoli di nuova emissione staccano cedola del 5% all’anno e hanno durata quinquennale, scadendo nel dicembre 2022. Da quando sono negoziati sul mercato secondario, hanno perso il 20% del loro valore, per cui gli obbligazionisti un tempo subordinati e oggi senior hanno subito, in un certo senso, una beffa.

Hanno sì ridotto il rischio di ritrovarsi azionisti, ovvero con un pugno di mosche in mano dopo l’eventuale conversione coattiva, ma a carissimo prezzo. E, attenzione, perché l’ultima parola sull’esenzione di tali titoli dal coinvolgimento delle perdite non sarebbe nemmeno detta, dipendendo il tutto dalle trattative che eventualmente sarebbero avviate tra Roma e Bruxelles nel caso di una nazionalizzazione di Carige tramite la ricapitalizzazione precauzionale.

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La sfida giallo-verde della nazionalizzazione

In tutto, la massa delle obbligazioni emesse e ad oggi esistenti sul mercato vale qualcosa come 5,5 miliardi di euro nominali. Non dovrebbero rischiare nulla, nemmeno con l’ingresso del Tesoro nel capitale. Tuttavia, parliamo di una materia sostanzialmente nuova quanto all’applicazione pratica, essendo il “bail-in” una disciplina recente e dribblato nella sostanza dall’Italia con l’istituzione di fondi pubblici con cui rimborsare gli obbligazionisti per i casi accertati di pratiche scorrette nella vendita dei bond e a ristoro delle perdite subite. Lo stesso accadrebbe verosimilmente anche nello scenario più avverso, specie sotto un governo, i cui due partiti della maggioranza – Movimento 5 Stelle e Lega –  della tutela del risparmio ne hanno fatto una bandiera elettorale da contrapporre al PD, accusato proprio di avere espropriato i piccoli investitori, salvando i banchieri.

Tornando all’ipotesi di nazionalizzazione, se le condizioni finanziarie di Carige lo consentiranno, si passerebbe dalle ipotesi all’azione solo dopo le elezioni europee. Il governo teme di perdere consenso su una simile operazione, trattandosi di quattrini dei contribuenti da sborsare per tenere in piedi una banca, cosa che fu contestata ai due ex premier Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Non è detto, però, che ci sarà tanto tempo disponibile per calciare il barattolo, specie se la sfiducia contagiasse il resto delle banche italiane in borsa e con conseguenze negative anche in fase di reperimento dei capitali sul mercato (aumenti di capitale ed emissioni di bond).

Per fortuna, da qui a qualche mese dovrebbe tenersi una nuova asta T-Ltro della BCE, la quale servirebbe ad aumentare la liquidità a disposizione dei sistemi bancari dell’Eurozona, allentando le tensioni tra gli investitori. Basterà a creare attorno a Carige un cordone di sicurezza per mettere al riparo gli altri istituti tricolori e per consentire a qualcuno di loro di prendere in carico Genova a costo zero, evitando che sia lo stato a dovere intervenire, mettendoci soldi e investendo capitale politico?

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