La notizia è di quelle che non passano inosservate, specie al di là dell’Atlantico. E, infatti, ieri a riportarla per prima è stata l’agenzia di informazione finanziaria statunitense Bloomberg: l’Italia sarebbe intenzionata a tirarsi fuori dall’accordo con la Cina, noto come Belt and Road Initiative, ma più popolarmente come Nuova Via della Seta. La premier Giorgia Meloni lo avrebbe anticipato allo speaker della Camera dei Rappresentanti, Kevin McKarthy. La scorsa settimana, nel silenzio della stampa italiana, il deputato appartenente al Partito Repubblicano e di cui il centro-destra condivide grosso modo le posizioni politiche, è venuto a fare visita a Roma.

Ha incontrato la premier, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

In quell’occasione, Meloni avrebbe spiegato al suo interlocutore, che ricopre di fatto una carica istituzionale, che avrebbe intenzione di stracciare l’accordo siglato nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte. La posizione non sarebbe ancora ufficiale, ma è probabile che sarà annunciata a breve. Non un fulmine a ciel sereno. Da leader dell’opposizione, aveva criticato la firma del Memorandum d’Intesa. Aveva sostenuto nei mesi prima delle elezioni che l’Italia sarebbe dovuta tenersi nell’alveo delle alleanze occidentali.

Investimenti cinesi in Italia quasi nulli

La Nuova Via della Seta fu considerata un’iniziativa diplomatica dirompente solamente quattro anni fa. Ad oggi l’Italia è l’unico membro del G7 a farne parte. Conte pensò di puntare su Pechino per rinvigorire gli investimenti stranieri e, quindi, la crescita dell’economia italiana. Ci fu un certo consenso allora per l’accordo, percepito come un’opportunità di ingresso delle nostre aziende nel mercato cinese. Gli effetti geopolitici furono, tuttavia, sottovalutati. Gli Stati Uniti già con Donald Trump alla presidenza non si mostrarono contenti, né lo è oggi il successore Joe Biden.

Con la pandemia e dopo ancora la guerra tra Russia e Ucraina, la diffidenza tra Cina e Occidente è diventata fortissima.

Tant’è che di recente la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha fatto appello agli stati comunitari per allentare la dipendenza da Pechino in un’ottica di “de-risking”, cioè di riduzione dei rischi. Rescindendo unilateralmente l’accordo, l’Italia otterrebbe il plauso di Unione Europea e Stati Uniti. D’altra parte, dovrebbe soppesare i rischi di una simile mossa. Pechino reagirebbe probabilmente con ritorsioni a carico delle nostre imprese. Nulla, tuttavia, che impensierirebbe più di tanto il Made in Italy. Le politiche commerciali sono fissate a livello comunitario. Non sarebbe possibile, oltre a qualche scaramuccia, per il governo cinese di imporre embarghi o divieti ad hoc contro le imprese italiane.

D’altra parte, la Nuova Via della Seta è stato tutto fuorché un accordo favorevole all’Italia. Gli investimenti legati ad esso sono crollati dai 2,51 miliardi di dollari del 2019 agli 810 milioni del 2020. Gli investimenti diretti della Cina sono precipitati dai 650 milioni del 2019 ai 33 milioni del 2021. Tanto per fare un paragone, nel 2020 essi furono di 1,9 miliardi in Germania e 1,8 miliardi in Francia. In pratica, Pechino ha investito di più nei paesi europei che non hanno firmato l’accordo, pur avendo ridotto gli investimenti in Europa ai minimi da un decennio.

Nuova Via della Seta, a Meloni serve scambio con americani

Dunque, la Cina ha semplicemente preso in giro l’Italia. Ha sfruttato la firma per la Via della Seta come un trofeo da esibire davanti agli americani, come per segnalare loro di essere riusciti a fare breccia in Occidente. I benefici economici attesi dal nostro Paese non si sono visti. Certo, c’è stata la pandemia, ma nel frattempo Pechino ha portato molti più denari altrove. Già il governo Draghi, va detto, aveva impedito l’acquisizione di aziende dei semiconduttori da parte di realtà cinesi.

La linea italiana filo-pechinese è durata fino alla caduta di Conte ad inizio 2021.

L’accordo sulla Via della Seta durerà formalmente per cinque anni. In assenza di novità, si rinnoverebbe automaticamente per i successivi cinque anni. L’ideale sarebbe stato completare il primo lustro e ritirarsi poco prima della scadenza. Si configurerebbe quale atto diplomatico meno irruento, che avrebbe salvato le forme. Ma da qui alla primavera del 2024 manca un anno e sarebbe troppo per il governo Meloni. Il ritiro segnalerebbe con decisione alle cancellerie occidentali da che parte stia l’Italia. Un bonus da poter riscuotere al tavolo delle innumerevoli trattative in corso e future. Già la premier ha fatto presente a McKarthy che l’Italia punta alla sicurezza nel Mediterraneo contro la crisi migratoria. Come dire agli Stati Uniti che in cambio del divorzio con Pechino pretendiamo che Washington ci dia una mano a bloccare le partenze dal Nord Africa, ripristinando condizioni minime di stabilità geopolitica nell’area.

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