Il mese di novembre, in dirittura di arrivo, si sta mostrando abbastanza negativo sui mercati finanziari per l’Italia. Tra il surriscaldamento delle aspettative d’inflazione nell’Eurozona, conseguenza della vittoria di Donald Trump negli USA, e il clima di attesa per il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, la finanza è tornata a mettere nel mirino il nostro paese. Piazza Affari ha perso questo mese il 5,5% e dall’inizio dell’anno ha già “bruciato” un quarto del suo valore di capitalizzazione, ovvero qualcosa come oltre 140 miliardi di euro.

Il comparto più colpito è quello bancario, che è crollato nel corso di questo 2016 di quasi il 52% e che a novembre ha messo a segno un tonfo del 12,5%. A guidare il crollo c’è sempre MPS, le cui azioni solo nel mese in corso hanno perso un quarto del loro valore, portando a -86% il bilancio annuale e scendendo a una capitalizzazione di appena mezzo miliardo di euro, ossia a un decimo dell’aumento appena varato, che sta diventando sempre più velleitario. (Leggi anche: Crisi banche italiane, fiducia scarsa)

Crisi colpisce mercato dei BTp

Non sta sfuggendo alla crisi di fiducia verso l’Italia nemmeno il nostro mercato dei titoli di stato: i rendimenti decennali sono saliti a novembre di oltre 40 punti base, ma con punte superiori ai 50 bp, al 2,10-2,20%. Lo spread BTp-Bund si è allargato di una quarantina di punti all’attuale livello di quasi 190 bp, mentre è salito anche il divario con la Spagna, rispetto ai cui Bonos decennali, i nostri rendono lo 0,50-0,55% in più, ovvero +0,1% in un mese. Il BTp 2067, collocato appena il 4 ottobre scorso, da allora ha perso il 15%.

Il premier Matteo Renzi nota come il divampare delle vendite sui mercati contro l’Italia sarebbe la prova, che nel caso di sconfitta delle riforme istituzionali al referendum di dicembre, la nostra economia rischierebbe una nuova crisi in stile 2011.

A queste dichiarazioni stanno da qualche giorno facendo da contraltare quelle da pompieri del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nonché degli Esteri, Paolo Gentiloni, entrambi rassicurando che “non sarebbe una catastrofe” né per l’Italia, né per il resto dell’Eurozona un’eventuale vittoria del “no”. (Leggi anche: Referendum e mercati, sorpresa come con le elezioni USA?)

 

 

 

Gli errori di Renzi, che pagheremo tutti

Cosa sta provocando questo sisma finanziario, che si teme possa dar vita a uno tsunami dal 5 dicembre? L’interesse dei mercati per il nostro assetto istituzionale è pressoché zero. Quasi tutti gli investitori internazionali tifano per il “sì”, non fosse altro per il timori di caduta dell’attuale esecutivo e di una conseguente vittoria degli euro-scettici del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche. Ma ad avere innescato un simile scenario è stato proprio il premier, che ha cercato si dall’inizio di quest’anno di utilizzare il referendum come un plebiscito sulla sua persona, al fine non solo di ottenere finalmente una legittimazione popolare, che non ha ancora avuto, non essendo nemmeno un parlamentare, bensì pure per mettere a tacere gli oppositori interni al PD e sbaragliare la concorrenza.

Se fino a 4-5 mesi fa, la vittoria del “sì” era attesa ampia, la personalizzazione dello scontro referendario ha ribaltato le previsioni, con la conseguenza che Renzi ha posto le basi per una possibile sconfitta non solo delle sue riforme, ma anche della sua esperienza politica e di capo del governo, accelerando la corsa dell’Italia verso il caos istituzionale. (Leggi anche: Banche italiane, investitori in fuga sul referendum)

Rischio caos dopo il referendum, comunque vada

Il resto lo ha fatto uno scontro muscolare, quanto a giorni alterni, con la UE, alla quale il nostro premier addebita scarsa flessibilità fiscale, quando ne ha ottenuta come nessun altro in Europa e prima di lui in Italia.

I conti pubblici italiani sono diventati strumento di elargizioni in favore dell’ultima categoria sociale da assecondare alla vigilia del voto, ponendo di fatto fine a quel già blando risanamento fiscale, che si era intravisto negli ultimi anni, ma che nella sostanza è dovuto solo al “quantitative easing” della BCE di Mario Draghi, senza il quale si stima che il rapporto tra debito pubblico e pil sarebbe volato già ben oltre il 140%.

Infine, rinviando il referendum di un paio di mesi alla fine dell’anno, il governo Renzi ha allungato l’agonia in borsa delle banche italiane, MPS in primis, al contempo concentrando su di esse le incognite relative alla sua sconfitta possibile il 4 dicembre. Quand’anche al referendum vincesse il “sì”, l’euforia sui mercati sarebbe breve, perché nel corso delle settimane successive, gli investitori tornerebbero a fare i conti sia con un’economia italiana stagnante, sia pure con probabilissime elezioni anticipate, il cui esito spazierebbe da una vittoria dei grillini con l’Italicum (senza maggioranza al Senato) a maggioranze incerte e foriere di caos con una nuova legge elettorale. Comunque vada, il danno appare certo. (Leggi anche: Spread a 190 punti, corsa contro i rischi)