Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) è intervenuto a gamba tesa nel dibattito sul taglio delle tasse nel Regno Unito dopo che i mercati finanziari avevano preso di mira la sterlina e i Gilt, i titoli di stato di Sua Maestà. Ha chiesto di porre fine a una manovra fiscale in deficit a favore dei contribuenti più ricchi, in quanto aumenterebbe le disuguaglianze, a suo dire. Non era mai accaduto che l’istituto prendesse pubblicamente posizione contro uno degli stati del G7.

E qualche giorno più tardi, il suo direttore generale, Kristalina Georgieva, ha bissato le critiche, stavolta contro tutta l’Europa. Ha fatto presente che le banche centrali stanno aumentando i tassi d’interesse contro l’alta inflazione legata alla crisi energetica e al contempo i governi stanno sostenendo famiglie e imprese da tali rincari in maniera indiscriminata.

Secondo la bulgara, sarebbe come se da un lato si pigiasse sul pedale del freno e dall’altro sul pedale dell’acceleratore. Pertanto, ha invitato i governi a concentrare le risorse sulle fasce della popolazione che ne hanno più bisogno. Il monito dell’FMI è duplice: basta spese in deficit con il rialzo dei tassi; se azzeri i rincari per i consumatori finali, la domanda resta invariata e ciò sostiene inflazione e speculazione finanziaria.

Da questo monito, possiamo dedurre che l’FMI non veda di buon occhio che i governi europei s’indebitino mentre i tassi d’interesse salgono. Del resto, non è un’invenzione di Georgieva che politica monetaria e politica fiscale debbano camminare assieme. Se restringi la prima e tieni espansiva la seconda, sui mercati il costo del debito esplode. E questo rischia di destabilizzare i mercati finanziari.

Niente deficit con rialzo tassi, sarà stagflazione

Poiché la lotta all’inflazione è un must con i prezzi al consumo che schizzano ormai in doppia cifra, a sbagliare sarebbero i governi.

D’altra parte, lo stesso FMI ammette che contro il carovita serve sostegno mirato alle fasce più deboli della popolazione. Dunque, tra le righe lancia un appello per un accordo: stretta sui tassi fino al punto di non strozzare eccessivamente le economie.

Il puzzle che va componendosi nelle ultime settimane ci spinge a credere che ai piani alti dell’establishment internazionale stiano optando per una soluzione intermedia: un po’ di alta inflazione e un po’ di crescita. E’ lo scenario che da mesi descriviamo come di stagflazione. Si verificò negli anni Settanta e durò per circa un decennio. Fu caratterizzato da alti tassi d’inflazione, alti deficit fiscali e bassi tassi di crescita del PIL. La spirale fu spezzata agli inizi degli anni Ottanta, quando l’America di Ronald Reagan e il Regno Unito di Margaret Thatcher si convinsero a disinflazionare le rispettive economie con tassi d’interesse più alti, transitando per un biennio di dura recessione. Ne uscirono con tassi d’inflazione normalizzati e tassi di crescita in deciso aumento.

Rispetto agli anni Settanta, l’Occidente risulta molto più indebitato. Ciò depone ancora più a favore di uno scenario di stagflazione. Solo con un’inflazione medio-alta i governi riuscirebbero a tenere sotto controllo il rapporto debito/PIL. Misure di austerità fiscale in una fase di quasi recessione come questa sarebbero per il momento escluse. I mercati fiutano già un compromesso e questa settimana le borse sono rimbalzate, mentre i rendimenti dei bond sono scesi. E’ la conferma delle debolezze occidentali: non siamo più in grado di sostenere qualche punto in più di costo del denaro. Siamo afflitti dai debiti.

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