Previsioni agghiaccianti, è il caso di dirlo, di Standard & Poor’s sulla crescita economica italiana. Per quest’anno, l’agenzia stima a +0,1% il pil tricolore, seguito da un +0,4% nel 2020. Successivamente, accelerazione al +0,6% e al +0,7% per il biennio 2021-2022. In quattro anni, l’economia dell’Italia si espanderebbe dell’1,8%, meno di quanto dovrebbe essere il ritmo di crescita minimo annuale per un mercato maturo. E non è detto che queste cifre vengano centrate, perché l’Italia è a rischio recessione già per i prossimi mesi, quando si faranno sentire gli effetti della crisi che sta colpendo la Germania.

Gli ordini tedeschi per le imprese del nord-est, in particolare, sono già in calo e porteranno con ogni probabilità a un ripiegamento del pil nazionale tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo.

La crisi dell’economia italiana è provocata dallo stato, ci vuole poco a capirlo

E rispetto alle altre economie, l’Italia ha dimostrato nell’ultimo decennio di riscontrare maggiori difficoltà e di avere bisogno di maggiore tempo per uscire da una recessione. Anzi, siamo l’unica grande economia nel mondo a non avere ancora recuperato i livelli di ricchezza pre-crisi, se è vero che alla fine del 2018 stavamo a -4,5% rispetto al 2007. Di questo passo, ci serviranno altri 7-8 anni prima di azzerare gli effetti dei 5 anni di recessione accusati nel biennio 2008-2009 e nel triennio che va da metà 2011 a metà 2014. In poche parole, l’Italia potrà affermare di essere uscita dalla crisi del 2007 dopo 20 anni!

Italia in stagnazione da inizio anni Novanta

Che siamo dinnanzi al collasso di un sistema produttivo appare fin troppo ovvio. Già prima della crisi mondiale di 11 anni fa, l’Italia si mostrava come un’economia stagnante da circa un quindicennio. I numeri parlano chiaro: tra il 1992 e il 2007, eravamo cresciuti in tutto del 25%, cioè al ritmo medio annuo di nemmeno l’1,5%.

Certo, oggi come oggi ci appaiono numeri da sogno, ma non lo sono affatto, anche perché il pil pro-capite era cresciuto in quel quindicennio ancora meno, cioè di quasi il 21%, l’1,3% all’anno. Dopo, il buio più totale.

Se teniamo conto che, nel migliore dei casi, il pil reale italiano nel 2027 sarà uguale a quello del 2007, capiamo benissimo che nei fatti ci siamo bruciati una generazione, a cui si aggiunge quella precedente – gli attuali trentenni e quarantenni – in penuria di opportunità di lavoro e crescita professionale. E se la congiuntura internazionale dovesse deteriorarsi al punto da farci entrare in una fase di recessione prolungata da qui al medio termine, finiremmo con ogni probabilità per arrivare al 2030 senza avere recuperato la ricchezza perduta dal 2007 in poi. Quant’è sostenibile tutto questo sul piano economico e sociale? E quali i risvolti politici ulteriori prevedibili?

L’Europa sta entrando in crisi e l’Italia si mostra ancora una volta senza difese

Gli accenni di crisi dell’economia e del debito a inizio anni Novanta portarono al crollo della Prima Repubblica, il collasso italiano post-2007 al crollo della Seconda Repubblica. Ma così come quest’ultima si era rivelata inadatta a governare i processi decisionali e a far uscire l’Italia dalle secche della crisi, la configurazione politica venutasi a creare negli ultimi anni è apparsa ancora meno adeguata, portatrice solo di istanze rabbiose e senza soluzioni concrete alla portata. Tuttavia, sbaglia chi pensa che il rimedio al collasso istituzionale in corso sia il ritorno alla macchietta della Seconda Repubblica con una spolverata di riti della Prima.

Un’ampia generazione perduta

C’è un’Italia di under 30 che non ha mai conosciuto crescita e sotto i 40 anni esistono solo pallidi ricordi di essa. Tra un decennio, saranno rispettivamente under 40 e under 50, cioè avremmo persone fino a ridosso della mezza età ad avere sempre vissuto in condizioni macroeconomiche di incertezza, ristrettezze, stagnazione e recessione.

Questa situazione non è, e ancor meno sarà, compatibile con la tenuta democratica delle istituzioni repubblicane. Non può esistere alcuna legittimazione per uno stato e i suoi rappresentanti, che non si rivelino capaci di arrestare il declino dell’Italia per 30-35 anni o anche di più.

Con un’economia ferma, se non con la retromarcia ingranata, il debito pubblico da problema diventa un macigno. I tassi d’interesse che paghiamo per onorarlo sono ai minimi storici, nelle ultime settimane si aggirano mediamente intorno al mezzo punto percentuale. In teoria, questo in breve tempo porterebbe a una caduta del rapporto tra debito e pil, mentre sta accadendo il contrario, perché per quanto bassi siano i rendimenti dei BTp, ancora inferiore risulta la crescita nominale, tenuto conto che la stessa inflazione sia scesa in prossimità dello zero. E se non scende ora, quando? A meno di immaginare che i tassi non risaliranno in fretta o che non torneranno, comunque, ai livelli pre-QE, al minimo cenno di normalizzazione dei mercati, con una crescita nulla rischiamo l’esplosione del debito.

Il circolo vizioso tra aumento della spesa per interessi, austerità fiscale necessaria per sostenerlo (tagli alla spesa pubblica e/o aumenti delle tasse) e contraccolpi per l’economia reale porterebbe a un avvitamento definitivo dell’Italia, che si allontanerebbe nei fatti del tutto dall’Eurozona, quando già oggi la separazione con il suo nucleo (Francia, Germania, ma anche Spagna) è evidente e in corso da anni. Basteranno un presidente della Repubblica europeista e un establishment votato al mantenimento dello status quo per contrastare l’ondata di risentimento anti-euro, che si leverebbe con maggiore vigore da una popolazione sempre più stremata dall’assenza di prospettive per il futuro?

Figli del debito pubblico, parola alla generazione che paga il conto dei padri spendaccioni

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