Ci sono diverse analogie tra l’Italia di oggi e quella post-bellica degli anni Cinquanta. Come allora, usciamo da un dramma (pandemia versus Seconda Guerra Mondiale), c’è grande voglia di ripartire e godiamo di aiuti internazionali (Recovery Plan versus Piano Marshall). Dunque, saremmo alla vigilia di un nuovo boom economico esattamente come negli anni Cinquanta e Sessanta?

Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ritiene che il PIL italiano quest’anno possa crescere del 5%. Il collega alla Funzione pubblica, Renato Brunetta, prospetta una crescita finanche del 6%.

Sono numeri che non vediamo proprio dagli anni del “miracolo economico”, durante i quali l’Italia si evolse da stato ancora legato all’agricoltura a una delle principali potenze industriali.

Le differenze con il boom economico post-bellico

Tuttavia, l’ottimismo ci sta facendo perdere di vista alcune rilevanti differenze. Il +5-6% atteso per quest’anno e il prossimo non è altro che il rimbalzo conseguente alla caduta del PIL nel 2020 (-8,9%). Se crescessimo del 5% per due anni, alla fine del 2022 ci ritroveremmo con un PIL reale di appena lo 0,4% in più del 2019. E dal 2023, una volta tornati ai livelli pre-Covid, il tasso di crescita dell’Italia rallenterebbe com’è ovvio. Bisogna vedere di quanto. Se tornassimo a crescere come negli ultimi decenni, sarebbe un disastro. Dal 2015 al 2019 siamo andati avanti a un ritmo medio del +0,8%. Altro che boom economico.

Ricordiamoci che nel 2019, l’Italia doveva ancora recuperare 4 punti di PIL rispetto al lontano 2007. Il divario con le altre economie europee si è ampliato, specie con la Germania. E se nel Secondo Dopoguerra l’inflazione a tre cifre aveva fatto crollare il rapporto debito/PIL, adesso ereditiamo dalla pandemia un macigno ancora più grosso e arrivato al 160%, in presenza di un’inflazione quasi azzerata e, a tratti, persino negativa. Peserà, eccome, sulle prospettive di crescita post-Covid.

Infine, tra oggi e gli anni del boom economico esiste una differenza abissale in termini di mentalità.

Allora, gli italiani avevano voglia di ri-costruire, di mettersi in gioco, non c’era granché da conservare e moltissimo da innovare. Oggi, lo stato mette i bastoni tra le ruote a chi produce per distribuire risorse secondo criteri di puro assistenzialismo. Il corporativismo spinto paralizza l’innovazione e la crescita e il benessere diffuso ci ha resi contestualmente un popolo mentalmente pigro e poco avvezzo ai cambiamenti. E non esiste boom economico che possa decollare su queste premesse.

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