Tenta la risalita oggi la rupia indiana, dopo che ieri ha toccato il suo nuovo minimo storico contro il dollaro americano, attestandosi a un tasso di cambio di oltre 69 per un’unità della divisa statunitense. Dall’inizio dell’anno, il segno è negativo di oltre il 20%. Troppo, specie perché il peggio potrebbe arrivare, allorquando la Federal Reserve inizierà davvero a ridurre gli stimoli monetari. Finora, l’abbondante liquidità sui mercati aveva spinto gli investitori a puntare sulle economie emergenti come l’India, ma adesso che i rendimenti dei bond pubblici e privati americani stanno risalendo, molti capitali stanno già facendo ritorno in patria.

In meno di tre mesi, sono stati disinvestiti titoli pubblici indiani per 10 miliardi di dollari.

 

Crisi finanziaria indiana: i precedenti storici

Torna alla mente la crisi del 1991, quando la Reserve Bank of India dovette chiedere aiuto al Fondo Monetario, disponendo di riserve in valuta straniera sufficienti solo per 13 giorni. Adesso, tuttavia, le cose stanno diversamente. L’economia indiana è già la terza del pianeta, avendo per diversi analisti scalzato il Giappone dal podio e ha dimensioni quattro volte superiori a quelle di 22 anni fa. La banca centrale indiana disporrebbe di riserve per 270 miliardi di dollari, così come il tasso di cambio affidato al mercato rende la situazione più flessibile e tranquilla, grazie al riequilibrio tipico del mercato. Il premier Manmohan Singh ha affermato, ad esempio, che il tracollo della rupia sosterrà le esportazioni. E questo è in parte vero, ma ci vorranno mesi, prima che gli effetti benefici si vedranno. E non è detto che si espleteranno in pieno con un’inflazione quasi al 10% che rende le merci poco competitive.

Allora come oggi, il fattore politico è determinante nella crisi finanziaria indiana. Nel 1991 erano stati tre cambi di governi e di altrettanti ministri delle finanze in 18 mesi ad avere fatto esplodere la situazione e sempre lo stesso anno veniva assassinato il primo ministro Rajiv Gandhi, a sette anni di distanza dall’assassinio della madre, l’allora premier Indira Gandhi.

Oggi, al contrario, preoccupa l’immobilismo del governo Singh, poco propenso alle riforme in questa legislatura iniziata nel 2009 e che terminerà agli inizi del 2014. In vista delle elezioni, anziché pensare a rendere l’economia indiana più competitiva, ad esempio, occupandosi della questione energetica, che spinge a importare energia dall’estero e in dollari, la maggioranza è più propensa a introdurre misure di welfare sempre più generose e inefficienti, come la possibilità per i due terzi più poveri della popolazione di comprare generi alimentari di base a prezzi scontati. Per frenare la fuga dei capitali sono state introdotte anche restrizioni amministrative, come i dazi più alti sull’oro, considerato un investimento improduttivo, ma che viene importato a ritmi crescenti per tutelarsi dall’inflazione.

Non siamo, quindi, ai livelli di allarme del ’91, ma le tensioni che stanno investendo le economie emergenti (Brasile, Russia, Indonesia, Sudafrica, Turchia, etc.) fanno ritenere che potremmo essere prossimi alla crisi asiatica di fine anni Novanta (Segnali di crisi dai Brics: India, Cina, Russia e Brasile non corrono più).