Ad aprile, i rappresentanti di sei banche centrali (BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, Banca Nazionale Svizzera, Riksbank e la Banca del Canada) s’incontreranno in Giappone, dove studieranno il possibile lancio coordinato delle rispettive monete digitali. A Francoforte l’ipotesi circola da tempo, ma i tempi ad oggi non sono sembrati maturi. L’euro elettronico o digitale sarebbe una sorta di “Bitcoin” garantito dall’istituto, sebbene il termine sia inappropriato, date le diverse caratteristiche che avrebbe rispetto alla “criptovaluta” per eccellenza, decentralizzata nella sua emissione e con un’offerta limitata, per cui dall’impatto tendenzialmente deflazionistico.

Gli studi in merito hanno subito una certa accelerazione dallo scorso anno, quando Facebook annunciò il lancio da quest’anno di Libra, la sua versione di moneta digitale. Governi e banche centrali, a partire dagli USA, cercarono sin da subito di contenerne la portata, minacciando esplicitamente il social di Mark Zuckerberg delle conseguenze giuridico-regolamentari e agendo sottotraccia per spingere le multinazionali che avevano aderito al progetto a boicottarlo. Obiettivo sostanzialmente raggiunto, visto che i circuiti finanziari hanno ritirato il loro appoggio.

Dunque, l’euro digitale, se e quando, nascerà eventualmente per reagire alla tendenza in atto da anni di società o persino entità sconosciute a sottrarre alle banche centrali il monopolio dell’emissione monetaria. Ma c’è un secondo motivo ben più immediato. La digitalizzazione delle monete servirebbe a ridurre più velocemente l’uso del contante, ancora preponderante in larghissima parte del mondo, persino quello più avanzato. Per capire perché, bisognerebbe leggersi uno studio recentemente pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, secondo il quale con l’arrivo di una prossima crisi, le economie mature avranno l’esigenza di abbassare ulteriormente i tassi d’interesse.

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Tassi negativi e prelievo forzoso

Qui, nasce un grosso problema: i tassi sono già stati azzerati o, addirittura, portati in territorio negativo in Europa e Giappone.

Impossibile ridurli ancora, altrimenti i risparmiatori reagirebbero spostando la liquidità depositata sui conti bancari e portandosela in casa. Perché dovrei pagare, per ipotesi, il 3% su un saldo di 10.000 euro del conto corrente, quando ritirando la somma in 100 banconote da 100, potrei nascondere sotto il materasso o in una cassetta di sicurezza i miei risparmi senza pagare alcunché? Il contante, quindi, pone forti limiti ai tassi negativi.

Da qui, due stratagemmi individuati in questi anni: cessare la stampa di banconote da 500 euro, che agevolerebbero lo spostamento di grosse somme dalla banca a un luogo ritenuto sicuro; contrastare l’uso del contante con limitazioni normative e una campagna mediatica terroristica. Se i risparmiatori cadessero nel tranello delle banche centrali e convogliassero parte della loro ricchezza cash nelle monete digitali ufficiali, si ritroverebbero senza quasi più armi per resistere a tassi sempre più negativi o finanche a un prelievo forzoso. L’euro digitale sarebbe collegato a un conto corrente, cioè resterebbe nel circuito bancario. Insomma, sarebbe un conto bancario altrimenti denominato.

Addirittura, s’avanza l’ipotesi di estendere anche all’eventuale liquidità in contanti rimanente eventuali tassi negativi imposti sugli euro digitali. Come? Applicando un coefficiente di conversione, che automaticamente ridurrebbe il valore degli euro di carta e moneta dello stesso tasso imposto a quelli elettronici. E così, le banche centrali potrebbero tagliare i tassi anche al -2, -4 o – perché no? – al -10%, mentre le banche commerciali li trasferirebbero per intero sui clienti, senza temere alcuna fuga dei capitali, non essendovi più alcuna alternativa pratica agli euro digitali o depositati presso un conto. E i governi, nel caso dovessero fare cassa, imporrebbero un prelievo forzoso sui conti bancari, riuscendo a contenere i rischi sul piano finanziario.

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