Anche ieri la Banca Centrale Turca ha annunciato il taglio dei tassi d’interesse, abbassandoli dal 12% al 10,5%. Nel settembre dello scorso anno, erano ancora al 19%. Nel comunicato post-board, l’istituto ha spiegato che ci saranno altri tagli dopo i quali verosimilmente il ciclo di allentamento monetario si concluderà. Poco importa se l’inflazione nel mese di settembre in Turchia sia esploso all’83,5%, ai massimi dal 1998. Per l’istituto, è solo conseguenza del boom dei prezzi delle materie prime. Del resto, non può dichiarare altrimenti.

Il mese scorso, quando i tassi erano stati tagliati al 12%, il presidente Erdogan affermò testualmente: “soddisfatto? No, i tassi d’interesse devono essere più bassi”. Non è un mistero che li voglia sotto la doppia cifra. E’ ormai un’ossessione che non si ferma dinnanzi alla realtà.

Taglio tassi, lira turca giù e inflazione su

Se l’inflazione vola, la lira turca sprofonda. Ha toccato nuovi minimi storici contro il dollaro nelle ultime sedute a un tasso di cambio di 18,60. Perde un altro 26% quest’anno dopo il -44% accusato nel 2021. Per Erdogan tanto meglio così. Nella sua visione, il taglio dei tassi deve servire per sostenere l’economia e abbassare l’inflazione. Egli crede, infatti, che solo incoraggiando gli investimenti la produzione possa crescere e con essa i prezzi si stabilizzeranno.

Questo accanimento contro la lira turca punta altresì a rendere la Turchia un paese esportatore alle porte d’Europa. Sinora l’obiettivo può dirsi tutto fuorché centrato. Nei primi nove mesi dell’anno, il deficit commerciale ha raggiunto gli 84 miliardi di dollari. E al 31 agosto scorso, le partite correnti segnavano quasi -40 miliardi. In altre parole, l’economia turca diventa meno competitiva, non più come vorrebbe Erdogan.

Semmai, questi dati ci forniscono uno spunto di riflessione su cosa effettivamente stia diventando la Turchia. Sottraendo dal saldo corrente il saldo commerciale, otteniamo un avanzo di quasi 34 miliardi di dollari.

Cos’è? L’afflusso netto di capitali. E chi sta rischiando così tanti denari in un’economia altamente instabile e alle prese con una crisi del cambio senza fine? Tutte le piste portano a Mosca. Erdogan è sul piano geopolitico più vicino a Vladimir Putin che non all’Occidente. Con la sua opera di mediazione tra Russia e Ucraina, sta cercando di ottenere vantaggi sia tra gli alleati della NATO, sia dal Cremlino.

Crescono capitali russi in entrata

Contrariamente ad Europa e Nord America, non sta partecipando alle sanzioni contro la Russia. Ciò sta attirando gli oligarchi, che oltre a mettere al riparo nei porti turchi i loro mega-yatch, stanno trasferendovi i loro capitali per sottrarli alla morsa delle capitali occidentali. Di fatto, la Turchia si è trasformata in un centro di riciclaggio dei capitali russi. Gli effetti di questo trend li vedremo presto. I fiumi di denaro in arrivo da Mosca sono certamente sostenuti anche dalla debolezza della lira turca, che fa sì che con quattro spiccioli gli oligarchi russi comprino asset nel paese.

Nel frattempo, il costo del taglio dei tassi lo sostengono gli stessi contribuenti turchi. Da marzo ammonta a 4,6 miliardi di dollari, equamente ripartiti tra Tesoro e banca centrale. I depositi in lire garantiti dal collasso del cambio sfiorano i 77 miliardi di dollari su un totale di 416 miliardi di risparmi complessivi portati in banca. La banca centrale parla ufficialmente di “liraizzazione” come obiettivo che si è impegnata a raggiungere. A farne le spese i bilanci familiari, costretti a sostenere un boom dei prezzi spaventoso. Da qui alle elezioni dell’anno prossimo, Erdogan non farà marcia indietro. Anzi, ingranerà la quinta per portare alle estreme conseguenze il suo esperimento finanziario ogni giorno più disastroso.

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