Lo smart working è entrato a far parte delle vite di milioni e milioni di persone in più quest’anno, a causa dell’emergenza Covid. In Italia, dove questa modalità di lavoro era usufruita da appena mezzo milioni di occupati, durante la pandemia ha coinvolto fino a oltre 10 volte il numero di persone. La trasformazione è epocale e strutturale, perché al netto di quanti siano già tornati a lavorare in ufficio o che lo faranno dopo il cessato allarme sanitario, imprese e lavoratori appaiono sempre più concordi nel non tornare del tutto al passato.

Ma c’è un’altra problematica che sta riguardando l’occupazione: la riduzione dell’orario di lavoro.

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Mesi fa, la premier finlandese Sanna Marin ha proposto di ridurre la giornata lavorativa da 8 a 6 ore e la settimana da 5 a 4 giorni. Nelle intenzioni di Helsinki, più tempo libero equivarrebbe a maggiore produttività, più posti di lavoro e consumi, oltre che aumento della soddisfazione personale. Dall’altro capo del mondo, arriva un’iniziativa simile, ma non per volontà del governo, bensì di una multinazionale. Unilever ha deciso da qualche settimana di sperimentare la settimana corta per i suoi 81 dipendenti in Nuova Zelanda. Lavoreranno 8 ore al giorno per 4 giorni, cioè 32 ore in tutto e non 40.

Il test non è nuovo nella storia recente. Era il 1997, quando il nuovo governo socialista francese con premier Lionel Jospin e ministro del Lavoro, Martine Aubry, introduce la settimana di 35 ore a parità di salario, pur in versione annacquata. L’esperimento non andò molto bene, se è vero che negli anni la norma fu oggetto di rivisitazioni e disapplicazioni nelle contrattazioni tra sindacati e imprese. Cosa accadde? Che i dipendenti sono finiti per lavorare gradualmente quanto prima, ma passando per lo straordinario. Quanto ai posti di lavoro creati, la Francia non ha brillato granché negli ultimi decenni, a differenza della Germania, dove i tassi di occupazione superano il 75%.

Pro e contro della misura

Quale sarebbe la ratio della riduzione dell’orario di lavoro? Per i suoi proponenti, si tratterebbe di ridurre i carichi di lavoro, così da poter impiegare più persone. In sostanza, si tratterebbe di creare occupazione suddividendo la torta tra un maggior numero di invitati. Se questa operazione avvenisse con riduzione proporzionale degli stipendi, potrebbe anche condurre all’obiettivo, ma nessun lavoratore sarebbe davvero contento di portare a casa una retribuzione più bassa, di certo non già chi guadagna già poco o punta a guadagnare di più. Se, invece, avvenisse a parità di stipendio, l’azienda subirebbe un aumento dei costi, che verrebbero scaricati sui prezzi, erodendo il potere di acquisto dei consumatori, cioè degli stessi lavoratori. Finirebbero per lavorare di meno, ma anche per guadagnare (in termini reali) di meno.

I favorevoli alla misura, però, ribattono che non sia vero, almeno non necessariamente. Sostengono che lavorando meno ore, il lavoratore diverrebbe più produttivo. E grazie alla maggiore produttività, i costi di produzione si abbasserebbero e assorbirebbero gli aggravi patiti dalle aziende. Tuttavia, se riesco a produrre la stessa quantità di beni e servizi con meno ore di lavoro, perché mai dovrei assumere nuovi lavoratori? Dunque, ammesso che i costi di produzione non aumentino, non sarebbe scontato che lo facciano i posti di lavoro.

Per contro, si potrebbe eccepire che quando la produttività sale, l’economia cresce e tende a creare occupazione. Tuttavia, ciò avverrebbe solo se le imprese riuscissero a produrre agli stessi costi più beni e servizi di quelli prodotti con le attuali 40 ore, altrimenti la crescita della produttività eviterebbe semplicemente un aggravio dei costi, non un loro abbattimento a beneficio della crescita e dell’occupazione.

Taglio orario di lavoro ma stesso stipendio: l’idea per salvare l’occupazione

Non sono le leggi a creare lavoro

E siamo così sicuri che la ripartizione del lavoro diverrebbe più equa? Se taglio l’orario di lavoro, aumento il tempo libero dei lavoratori. Se questi percepiscono retribuzioni medio-basse, verosimilmente ne approfitterebbero per trovarsi un secondo lavoro part-time o ricorrendo allo straordinario per guadagnare di più. Il loro stress non si ridurrebbe e alla fine guadagnerebbero di più, ma non avrebbero liberato posti di lavoro. Infine, bisogna capire che si possa discutere di ridurre l’orario di lavoro in un mercato in piena occupazione, dove gli imprenditori hanno difficoltà a trovare nuova manodopera e potrebbero anche accettare un rialzo del costo del lavoro, pur non nella forma diretta di aumentare gli stipendi. Ma quando l’occupazione è bassa, cioè un’economia vive sotto il suo potenziale e non impiega appieno i fattori produttivi, la riduzione dell’orario di lavoro si traduce in un costo del tutto evitabile e che non creerebbe affatto nuovi posti di lavoro, bensì rischia di distruggerli per l’insostenibilità della misura da parte delle aziende più fragili.

Per concludere, il tema dell’orario di lavoro è mal posto. Anzitutto, perché non lo decide il legislatore, bensì il mercato. Quasi sempre nella storia, il secondo ha creato le premesse affinché il primo decidesse di conseguenza, non viceversa. La tecnologia rese possibile far lavorare i dipendenti non più fino alle 16 ore al giorno a cui erano costretti nelle fabbriche dell’Ottocento. Una volta che ciò accadde, gli stati si regolarono per abbassare per legge l’orario fino alle attuali 40 ore settimanali come riferimento un po’ in tutto il mondo avanzato. Secondariamente, la proposta di questi tempi appare un’escamotage per sfuggire alla questione reale che si pone davanti ai nostri occhi: come continuare a crescere e a creare condizioni di piena occupazione. In Italia, dove al sud meno di un abitante in età lavorativa risulta occupato, la riduzione dell’orario di lavoro equivarrebbe a distribuire la miseria tra un maggior numero di piatti, tutti ugualmente vuoti.

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