Ha fatto il giro del mondo la notizia dell’arresto dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, in stato di fermo per 48 ore, al fine di essere interrogato dalla polizia di Nanterre su presunti finanziamenti ottenuti dalla Libia di Muhammar Gheddafi per la sua campagna elettorale del 2007. Gli inquirenti gli contestano da tempo possibili fondi neri per 50 milioni di euro, che se fossero dimostrati, avrebbero infranto la legislazione elettorale francese, più che doppiando da soli il limite dei 20 milioni di euro per i finanziamenti allora fissato per i candidati, nonché contravvenendo al divieto per gli stessi di accettare finanziamenti da società, enti e individui stranieri.

Due anni fa, un uomo d’affari franco-libico, Ziad Takieddine, sostenne di aver fatto da tramite in tre occasioni tra Tripoli e Parigi tra il 2006 e il 2007, consegnando a uomini vicini a Sarkozy un totale di 5 milioni. Formalmente, l’ex presidente non avrebbe mai intascato fondi libici direttamente, avvalendosi di persone a lui vicine e fidate, come Claude Gueant e Brice Hortefeux, i quali ebbero effettivamente ruoli di primo piano nell’Eliseo nel corso del suo mandato.

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La vicenda libica ci riguarda come Italia, perché s’intreccia con la caduta del regime di Gheddafi per mani francesi, a seguito dell’intervento militare del 2011, a cui l’Italia inizialmente si oppose e al quale dovette cedere in un secondo momento su pressione dell’allora presidente Giorgio Napolitano, che temeva che la posizione contraria del governo Berlusconi isolasse il nostro Paese sul piano geo-politico, all’interno dello scacchiere europeo. Sta di fatto che il figlio dell’ex rais, Saif Islam, dopo la guerra mossa da Parigi a Tripoli dichiarò arrabbiato: “Quel pagliaccio di Sarkozy ci restituisca i 50 milioni che gli abbiamo dato”. Un altro episodio inquietante si registrò dopo alcuni mesi dall’uccisione di Gheddafi, quando a Vienna venne trovato morto annegato nelle acque del Danubio l’ex ministro del Petrolio libico, Choukri Ghanem, dimessosi dalla carica un anno prima, in rottura proprio con il rais.

Pare che l’uomo avesse le prove dei finanziamenti a Sarkozy per diversi milioni di euro, per mezzo di appunti su un’agenda.

Cosa c’entra l’Italia con l’affaire Sarkozy

Ora, la ricostruzione della vicenda è materiale per i magistrati francesi, a noi interessa indagare un altro aspetto, ovvero se Sarkozy, come sostengono dagli ambienti del centro-destra italiano, abbia provocato la caduta del governo Berlusconi, in quanto ostile all’intervento in Libia. Per prima cosa, dovremmo chiederci perché Sarkozy ha eliminato quello che sarebbe stato un suo finanziatore generoso solo 4-5 anni prima. Una possibile risposta sarebbe la seguente: la Primavera Araba aveva già travolto i regimi di Tunisia ed Egitto, nonché infiammato altri stati, come lo Yemen e la Siria. La caduta del regime libico sembrava solo questione di mesi. Che forse l’allora presidente francese temette che un rovesciamento del rais ad opera degli oppositori interni avrebbe fatto emergere le prove dei finanziamenti di Tripoli? Se così fosse, la guerra in Libia voluta dalla Francia ebbe come obiettivo principale, se non unico, di cancellare le prove.

Ma l’Italia cosa c’entra? Le relazioni diplomatiche con la Libia erano nettamente migliorate sotto il governo Berlusconi, accusato dalla stampa nostrana in quegli anni di essere stato sin troppo prono nei confronti del dittatore dagli atteggiamenti strambi e apparentemente dall’umore instabile. Il riavvicinamento di Roma a Tripoli non avvenne gratis, ma dietro il pagamento di quelli che il rais definì spese di riparazione per l’occupazione italiana fino al suo arrivo al potere nel 1969, ma compensate da lauti accordi commerciali a vantaggio di Eni, il nostro colosso petrolifero, che nel paese nordafricano resta a tutt’ora di casa.

E le partenze dalle coste libiche di gommoni e imbarcazioni con clandestini a bordo e diretti verso l’Italia furono, se non arrestati del tutto, quanto meno drasticamente ridotti, mentre sono riesplosi proprio con la caduta di Gheddafi.

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Le ostilità tra Italia e Francia in Libia

La Francia, si sa, ha sempre mal tollerato la nostra presenza in Nord Africa, ma il bisogno impellente di Sarkozy sarebbe stato, secondo la tesi “complottista” prevalente oggi in Italia, di eliminare un regime divenuto scomodo, sostituendolo con nuovi “amici”, evitando così che carte imbarazzanti finissero in mano a personalità non controllate da Parigi e che il nostro Paese prendesse troppo piede a Tripoli. Peraltro, proprio il governo Berlusconi si era mostrato ostile all’intervento francese, tanto che pressato dal Quirinale, il premier avrebbe persino meditato le dimissioni, le stesse che sarebbero arrivate ugualmente poche settimane dopo, ma per effetto dell’umiliante crisi dello spread.

Come i francesi si sarebbero sbarazzati di Silvio Berlusconi? Risposta dei complottisti: scatenando proprio la crisi dello spread. E qui, ci sono almeno un paio di incongruenze. L’una è temporale: lo spread iniziò a salire già nella tarda primavera del 2011, quando la Francia non sembrava ancora intenzionata ad attaccare la Libia, anche se già era esplosa la protesta nel mondo arabo sin dalla fine dell’anno precedente. Secondariamente, a sostegno del complotto si porta spesso la “prova” delle copiose vendite di BTp da parte di Deutsche Bank tra la fine del 2010 e il 30 giugno 2011, che il mercato avrebbe inteso come una fuga della principale banca tedesca dal nostro debito sovrano. A parte il fatto che la storia è stata abbastanza più variegata di come è stata percepita inizialmente, non si capisce che ruolo avrebbero avuto i francesi in questa vicenda.

Oltre tutto, quand’anche a volersi sbarazzare di Berlusconi fosse stata la cancelliera Angela Merkel, sembra davvero strampalato pensare che ella abbia avuto il potere di chiamare i dirigenti di una banca privata, commissionando loro maxi-cessioni di titoli di stato italiani. Le banche non sono al servizio dei governi, operano da soggetti privati e secondo logiche puramente di mercato, non geo-politiche. Qui, a parte tutto, la Francia non avrebbe nemmeno scatenato la crisi, ma semmai le sue banche avrebbero seguito le mosse di Deutsche Bank.

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Ma fu davvero complotto di Sarkozy contro Berlusconi?

Certo, Sarkozy non amava Berlusconi, pur essendosi inizialmente ispirato a lui, tanto da essere stato definito negli anni precedenti “il Berlusconi di Francia” da parte della stampa nazionale avversaria. La risata in conferenza stampa con Frau Merkel nelle stesse settimane della guerra in Libia, alla domanda di un cronista sulle rassicurazioni del nostro premier in fatto di conti pubblici e riforme fu la prova dell’ostilità a cui l’asse franco-tedesco (più dei francesi, a dire il vero) era arrivato nei confronti dell’Italia. Da qui, però, a poter dimostrare il nesso tra il deterioramento dei rapporti con Roma e la crisi dello spread ve ne corre.

Vero semmai è che il tragico duetto Merkel-Sarkozy non solo non si mostrò in grado di tutelare l’integrità dell’unione monetaria, ma rischiò di accelerarne la disgregazione, quando nell’ottobre di quell’anno pretesero e ottennero dall’Eba, l’authority bancaria europea, che i titoli di stato fossero iscritti a bilancio al loro valore “mark-to-market” del 30 settembre. Il mercato intese tale mutamento regolamentare come la conferma che bond come i BTp rischiassero di non essere rimborsati al 100% del loro valore nominale, ossia che l’Italia fosse costretta di lì a poco a dichiarare default o a ristrutturare il suo immenso debito sovrano.

In sostanza, Sarkozy pasticciò molto, in patria e all’estero. Di lui, rimane un ricordo pessimo a Parigi come presso le cancellerie straniere. Non gli servì nemmeno il fervore nazionalista sulla guerra in Libia per rovesciare i sondaggi e rimontare contro un impalpabile François Hollande, notabile grigio del Partito Socialista, in effetti rivelatosi il più fallimentare dei presidenti della Quinta Repubblica, avendo affossato elettoralmente tutta la gauche. Detto ciò, non sono stati né Sarkozy, né la cancelliera Merkel ad avere alimentato la crisi finanziaria ai danni dell’Italia, provocando la caduta del governo Berlusconi. Essi ne hanno semmai gioito, guardando con fiducia, ben presto tradita, a un nuovo corso italiano più improntato al rigore fiscale e a una maggiore austerità verbale e degli atteggiamenti di chi sarebbe succeduto al Cavaliere. Ci volle poco per capire che a Roma la figura del premier è un dettaglio.

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