Quando Mauricio Macri s’insediò alla presidenza nel dicembre 2015, il suo primo atto fu la liberalizzazione del cambio sul mercato valutario. Da allora, il peso ha perso oltre l’80% contro il dollaro. In un certo senso, quella decisione segnò l’avvio di una stagione di riforme economiche necessarie, seppure dolorose e impopolari. Con Alberto Fernandez, la musica è cambiata. Il suo debutto a Casa Rosada sta avvenendo all’insegna della tradizione peronista, cioè colpendo il mercato dei capitali e, in particolare, quei segmenti dell’elettorato che non lo hanno sostenuto alle recenti elezioni presidenziali.

E così, al via la stangata sui prodotti agricoli. Le tasse sulle esportazioni tornano a salire, passando dal 12% al 15% su farina e mais, dal 30% al 33% sulla soia, dal 7% al 9% sulla carne di manzo. Obiettivo: costringere il settore primario a produrre perlopiù per la vendita sul mercato domestico, così da accrescere l’offerta interna e contenere l’inflazione, ancora sopra il 50%.

Argentina, ristrutturazione del debito e colloqui con FMI i primi passi di Fernandez

Ma queste misure non arrivano da sole. Un alto funzionario del nuovo governo ha annunciato che verranno tassati anche i pagamenti effettuati all’estero in dollari. La cosiddetta “tassa sul turismo” sarebbe pari al 30%, anziché del 20% come era stato riportato dalla stampa. Sarebbe un modo per limitare i deflussi di capitali, spesso mascherati anche da acquisti all’estero. E sul mercato nero del cambio è stato il panico lunedì. Il peso è crollato dell’8% in una sola seduta, scambiando a 74 contro un dollaro. Secondo il cambio ufficiale, solo parzialmente libero di fluttuare negli ultimi mesi, un dollaro varrebbe poco meno di 60 pesos.

Il ritorno ai vecchi vizi peronisti

La distanza tra cambio illegale e quello ufficiale segnala i rischi che incombono sull’economia sudamericana e al momento si è portata ai massimi dalle elezioni di ottobre e, soprattutto, risulta quadruplicata rispetto ai livelli di inizio anno.

Sarebbe la conferma che gli argentini siano a caccia di dollari per mettere ancora una volta in salvo i loro risparmi e che nel tempo, se il fenomeno persistesse, si arriverebbe a uno scenario venezuelano, con inflazione sempre più alta da un lato e offerta domestica sempre più bassa.

Eppure, in un paio di settimane il rischio sovrano percepito si sarebbe sgonfiato, pur restando altissimo. I “credit default swaps” a 5 anni costano più di 5.300 punti base, molti meno degli oltre 6.900 di inizio dicembre. In pratica, per assicurare 10 milioni di dollari di bond argentini bisognerebbe spendere il 53% della somma, cioè 5,3 milioni, circa 1,6 milioni in meno di pochi giorni fa. Il mercato starebbe tirando un parziale sospiro di sollievo dopo la nomina all’Economia di Martin Guzman, che si è mostrato contrario al taglio del valore nominale dei titoli, propendendo per soluzioni più morbide, come l’allungamento delle scadenze e il rinvio dei pagamenti delle cedole.

I creditori dell’Argentina faranno i conti con quest’uomo

Di certo c’è che l’Argentina stia tornando agli stessi contenuti di politica economica visti sotto la presidenza di Cristina Fernandez de Kirchner (2007-2015), che a questo giro è la numero due del governo, sebbene gli analisti politici notino come abbia piazzato uomini chiave a sé vicini presso le principali posizioni di comando e sostanzialmente sia da considerarsi a tutti gli effetti una sorta di “presidenta ombra”. La breve stagione delle riforme economiche può considerarsi definitivamente conclusa. Buenos Aires torna a isolarsi dai mercati finanziari e si avvia verso una complicata rinegoziazione di 100 miliardi di dollari di debito estero con i creditori privati, oltre che di 57 miliardi con il Fondo Monetario Internazionale.

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