C’era una volta in Cina la dinastia Qing (1644-1911), che pochi mesi prima di essere abbattuta dalla rivoluzione di Sun Yat-sen chiese un prestito agli obbligazionisti americani per la costruzione della ferrovia. A distanza di 108 anni, l’American Bondholders Foundation, nata nel 2001 per rappresentare le istanze dei creditori americani nei confronti della Cina pre-maoista, sta iniziando a battere cassa. Alcuni suoi rappresentanti hanno incontrato il presidente Donald Trump e il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, nel tentativo di convincerli a non accettare la posizione ufficiale di Pechino, ribadita proprio in questi giorni e secondo la quale la Repubblica Popolare Cinese è nata solo nel 1949 e al tempo vennero ripudiati debiti e obbligazioni “ingiusti” sorti nell’era precedente.

Anzi, il governo cinese precisa che i nazionalisti di Chiang Kai Shek, che si considerano gli eredi del regime precedente alla rivoluzione maoista, fuggirono a Taiwan e, quindi, i creditori americani dovrebbero pretendere che a pagare fosse l’isola.

Ma la fondazione non accetta tale spiegazione, anzi la ritiene paradossale. Se da sempre la linea ufficiale di Pechino è che esista una sola Repubblica Popolare Cinese e Taiwan sia semplicemente una provincia ribelle, perché non si accolla i debiti sorti precedentemente alla sua nascita e perché scarica l’onere su un’entità nemmeno formalmente riconosciuta?

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Il ripudio del debito come arma dei governi

Non stiamo parlando di bruscolini, perché tra inflazione e interessi, si calcola che il debito da restituire ammonterebbe a circa 1.000 miliardi di dollari, quasi quanto il debito USA in mano alla Cina. La Casa Bianca non ha ancora detto la sua e difficilmente Trump riuscirà a cavare anche un solo ragno dal buco. Semmai, potrebbe mettere il caso nel calderone delle trattative con Pechino per accrescere la pressione sul governo cinese e cercare di strappare condizioni commerciali più favorevoli all’America.

Quasi impossibile, però, che i cinesi accettino mai di pagare per un debito di 108 anni fa; in primis, perché sarebbe politicamente umiliante e secondariamente perché così riconoscerebbero esplicitamente l’eredità del governo nazionalista precedente alla nascita della Repubblica Popolare. Per non parlare dell’entità della cifra, praticamente pari a circa 8 punti del pil cinese.

Potremmo relegare il caso tra le cronache marziane di economia, ma esso offre qualche spunto di riflessione di un certo interesse. Il fatto che la Cina non riconosca un debito preesistente all’avvento dell’era comunista potrebbe sembrarci scontato, anche perché l’obbligazione risale ormai a oltre un secolo fa. Ma il ripudio del debito di fatto costituisce storicamente un’opzione in mano ai governi con più frequenza di quanto si creda, specie dopo la caduta di una dittatura o il passaggio da una forma istituzionale all’altra. Uno stato africano, asiatico o anche sudamericano potrebbe decidere, a seguito di una svolta politica traumatica, di non pagare per debiti contratti da governi precedenti e tacciati di corruzione, malaffare e di avere utilizzato i proventi contro il popolo e non a suo favore.

L’ipotesi appare molto remota presso le grandi economie occidentali, eppure dovremmo stare cauti anche in questi casi. L’Italia vive da decenni convulsioni politiche assai profonde, che hanno fatto collassare la Prima e la Seconda Repubblica nel giro di un quarto di secolo. C’è tra gli elettori un sentimento diffuso, per quanto assai opinabile, secondo cui l’alto debito pubblico sia stato contratto a seguito di ruberie di stato e risulterebbe ingiusto che a pagarlo siano i soliti noti, cioè i contribuenti. Questo modo di pensare ha quasi lambito la politica italiana negli ultimi mesi, con la nascita del governo giallo-verde, quando si è parlato, più per propaganda irresponsabile che per convinzione, di ripudiare almeno parte del debito.

Chi ci dice che tra qualche anno non si creino le condizioni per rivendicazioni più politicamente sostenute e tali da minacciare i possessori del debito sovrano italiano?

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