Di male in peggio i dati sull’inflazione negli USA. A giugno, i prezzi al consumo nella prima economia mondiale sono cresciuti del 9,1% su base annua, mai così tanto dal 1981. E rispetto a maggio, ha segnato +1,3%, ritmo massimo dall’aprile del 2005. I mercati non si aspettavano una decelerazione, ma almeno una crescita sotto il 9%. Invece, i numeri si sono rivelati fortemente negativi. Tra l’altro, i salari orari sono cresciuti a giugno del 5,1%, cioè di ben 4 punti percentuali in meno.

Non ci sono scuse per la Federal Reserve. I tassi d’interesse dovranno continuare a salire senza se e senza ma. E del resto il governatore Jerome Powell non ha fatto che spiegare questo nelle ultime settimane.

Allarme recessione

L’inflazione americana, tuttavia, inguaia la stessa Europa. La BCE non ha neppure iniziato ad alzare i tassi. Lo farà al board di giovedì prossimo, ma in misura troppo timida (+0,25%) per rallentare la corsa dei prezzi al consumo. Nell’Eurozona, accelerava a giugno all’8,6%. Nel frattempo, il cambio euro-dollaro è sceso sulla parità per la prima volta in venti anni. Una FED più interventista costringerà la stessa BCE a inseguire con il fiatone, mentre l’economia continentale si avvia verso la recessione.

L’alta inflazione americana è un problema per l’Europa anche sul piano delle relazioni commerciali. Negli ultimi venticinque anni, gli USA hanno registrato una crescita reale degli stipendi dell’1% medio all’anno. Grazie all’aumentata capacità d’acquisto, i consumi sono cresciuti anche in rapporto al PIL e così anche le importazioni dal resto del mondo. Ciò ha pesato negativamente sulla bilancia commerciale. Basti pensare che nel 1997 il passivo riguardo all’import/export di beni ammontava a circa 180 miliardi di dollari, intorno al 2% del PIL. L’anno scorso, era salito a 1.076 miliardi, il 4,7% del PIL.

Con l’Unione Europea gli USA registrano cronici passivi commerciali.

Nell’ultimo quarto di secolo, sono schizzati da 17 a 200 miliardi. In altre parole, oltre un punto di PIL di crescita del continente è dovuto proprio grazie alle esportazioni nette verso gli USA. Ma con il tracollo dei salari reali, questo ritmo appare insostenibile. Per quanto il cambio euro-dollaro tenda a favorire le nostre esportazioni, d’altra parte i consumi degli americani non potranno reggere con una perdita del potere d’acquisto nell’ordine dei 4 punti percentuali all’anno.

L’inflazione americana colpirà l’export UE

E’ pur vero che di peggio stia accadendo in Europa, ma le famiglie europee sono rinomatamente formiche. Potranno utilizzare parte dei risparmi accumulati per sostenere i propri consumi nei prossimi mesi. Negli USA, la propensione al risparmio è storicamente bassa, pur in ripresa nell’ultimo decennio. Ciò porterebbe a una riduzione dei consumi presso le famiglie americane, vale a dire a un calo delle importazioni dal resto del mondo. Una delle basi su cui poggia il benessere europeo – l’export – vacilla. E sarà così finché la FED non batterà l’inflazione, anche se per farlo dovrà verosimilmente portare l’economia americana in recessione, cioè contrarre consumi e investimenti. In sostanza, l’Europa pagherà la disinflazione il doppio: per sé e per il suo principale cliente.

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